«Un non ristorante». Così ama definire Sensorium il suo chef e fondatore Federico Rottigni, per sottolineare come «il cibo e i piatti che propongo sono solo una parte di un’esperienza integrata, che intende coinvolgere tutti i sensi e più in generale l’intera percezione psicofisica delle persone che vengono a trovarci. Ogni elemento, dalle luci alla temperatura dell’ambiente, dai suoni alle consistenze tattili, è progettato (dallo stesso Rottigni, ndr) per amplificare le emozioni e stimolare la memoria sensoriale».
Tra non-ristorante e performance teatrale
La cucina è innovativa e sperimentale, la concezione dei piatti gioca sull’interazione con i clienti-pubblico, in un menu che è costruito come una sorta di spettacolo in più atti, dove ognuno, non solo il cibo, lo chef, lo staff, ma anche il cliente recita la sua parte, in un susseguirsi di portate-sorpresa che seguono una storia e un filo rosso fatto di luci, di suoni, e di musica. Oltre che di ricerca gastronomica. Questo anche grazie a un bancone che ospita solo 11 commensali, così che ognuno possa seguire da vicino cosa succede e il racconto dello chef e dei sui assistenti. E la “messa in cena” si ripete tutti i giorni uguale, come in un teatro. Il menu varia solo una volta l’anno e dopo un fase iniziale dove era composto di soli dessert, il format ha assunto la sua forma attuale dal 2022.
«C’è il gusto, ma ci può essere anche il dis-gusto», provoca lo chef-coreografo, che prima di scoprire la passione della cucina ha studiato al Naba-Nuova Accademia di Belle Arti di Milano e che non abbandona mai un approccio artistico-sperimentale. Così invita gli ospiti a lasciare il galateo fuori dalla porta per abbandonarsi alle emozioni e a tornare bambini. Un approccio così sperimentale che ha suscitato l’interesse della psicologia e delle neuroscienze, fino a diventare protagonista di uno studio di Charles Spence, professore di Psicologia Sperimentale e capo del Laboratorio di Ricerca Cross-Modale presso l’Università di Oxford, da poco pubblicato sull’International Journal of Gastronomy and Food Science. Spence da anni indaga la gastrophysics, cioè il modo in cui cambiano le percezioni relative al cibo in base al contesto in cui avvengono. Nel caso specifico lo studio ha analizzato come «un’esperienza multisensoriale possa scatenare reazioni emotive intense, fino al pianto».
Il piatto che fa piangere e lo studio di Oxford
«Tutto nasce dal fatto che abbiamo notato come il piatto Serendipity, parte del percorso che proponevamo lo scorso anno, l’Ayahuasca, commuoveva molte persone. Così, per la prima volta, un ristorante italiano diventa oggetto di uno studio pubblicato con il supporto accademico di Oxford», racconta non senza un pizzico di orgoglio Rottigni. «Il cibo è solo un vettore – continua -. Luce, suono, tatto, odori e narrazione si intrecciano per creare un’esperienza che va oltre la tavola. Lavorare con Charles Spence a questa ricerca ci ha permesso di esplorare ancora di più il legame tra percezione ed emozione e di scoprirne anche i fondamenti scientifici».
Serendipity è un dessert che combina elementi tattili, sonori e visivi, accompagnato da una colonna sonora immersiva che include suoni evocativi come quello di una campanella scolastica, il racconto di un’anziana donna e che sfrutta la ripetitività e le basse frequenze, «elementi tipici delle sonorità sciamaniche ancestrali, per indurre stati di semi-trance e profonda introspezione». Un’analisi condotta su 500 ospiti ha rivelato che il 60% ha dichiarato di aver pianto o di aver sentito il desiderio di farlo, magari trattenendosi per pudore. «È raro che un piatto evochi una risposta emotiva così intensa – ha dichiarato Spence in un’intervista a The Common Table -. Anche in altre ricerche abbiamo visto che il suono e il contesto possono influenzare fortemente la percezione del cibo e l’esperienza emotiva. Questo piatto sembrava un perfetto esempio di questo fenomeno».