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La violenza di genere è un fenomeno che non conosce barriere geografiche o temporali e può manifestarsi in varie forme: dalla violenza fisica e sessuale a quella psicologica ed economica. Nella definizione fornita dell’ISTAT, la violenza economica è descritta come “l’impedimento a conoscere il reddito familiare, di avere una carta di credito o un bancomat, di usare il proprio denaro e il costante controllo su quanto e come si spende”. Si tratta di una forma di violenza subdola e sommersa, un fenomeno meno conosciuto rispetto alle altre modalità ma molto diffuso e trasversale, spesso indipendente dal livello di educazione o dal reddito delle persone coinvolte. Può essere messa in atto con varie strategie: scoraggiando o addirittura proibendo di lavorare, impedendo di raggiungere livelli di istruzione elevati o anche appropriandosi della paga o delle proprietà della propria partner. Spesso l’obiettivo di chi attua queste forme di abuso è quello di ottenere il controllo sulla donna: mettendo in discussione la sua sicurezza economica (e quindi la possibilità di divenire autosufficiente), le viene negata l’opportunità di soddisfare i propri bisogni (ed eventualmente quelli dei propri figli) e di ottenere una propria indipendenza, boicottando così anche ogni tentativo di sottrarsi ad altre forme di violenza.

Contro la violenza economica serve un’azione sistemica

Per cercare di prevenire questa forma di violenza è necessario compiere un’azione sistemica, che si basi sia sul mercato del lavoro (su questioni come la disoccupazione, la stabilità lavorativa e il livello di retribuzione) che su altri aspetti come il livello di istruzione e le competenze professionali acquisite. La violenza economica è infatti frutto di fattori sia strutturali che culturali. Tra questi si possono sicuramente annoverare la scarsa diffusione di servizi educativi per la fascia 0-6 dei propri figli (che nemmeno lo sforzo del Pnrr risolverà) e la cura familiare e della casa quasi esclusivamente affidata alle donne. Entrambi i fenomeni si caratterizzano per disincentivare la donna dal prendere parte al mercato del lavoro, aumentando quindi la possibilità di dipendere economicamente dal partner.

A tale proposito, un importante indicatore per cominciare ad analizzare la situazione dell’indipendenza economica in Italia è la partecipazione femminile al mercato del lavoro. L’assenza di un reddito individuale e percepito direttamente dalla donna può infatti costituire un fattore di rischio, configurando una potenziale situazione di completa dipendenza economica dal partner. Su questo fronte, è importante sottolineare che le donne negli ultimi decenni hanno ottenuto maggiori tutele, diritti e di conseguenza facilità di accesso a determinati segmenti del mercato del lavoro. Un primo esempio in questo senso è la legge 903 del 9 dicembre 1977 sulla parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro. Grazie a questa ed altre leggi (a tutela, per esempio, della maternità), la partecipazione femminile al mercato del lavoro è divenuta sempre più diffusa. In questo contesto svolge un ruolo fondamentale anche l’istruzione, in particolare quella superiore, che diventa un fattore protettivo di fronte alla perdita del posto di lavoro e permette di ampliare il ventaglio di possibilità lavorative a cui le donne hanno accesso.), la partecipazione femminile al mercato del lavoro è divenuta sempre più diffusa. In questo contesto svolge un ruolo fondamentale anche l’istruzione, in particolare quella superiore, che diventa un fattore protettivo di fronte alla perdita del posto di lavoro e permette di ampliare il ventaglio di possibilità lavorative a cui le donne hanno accesso.

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La partecipazione delle donne al mercato del lavoro

Pur a fronte di questi progressi, nel 2023 in Italia, il 43% delle donne tra i 15 e i 64 anni non partecipa al mercato del lavoro. Questa categoria include tutte le donne che non sono occupate o ricercano attivamente un’occupazione retribuita. Tuttavia, va sottolineato che queste donne sono impegnate in lavori non retribuiti, come cura e gestione domestica (il così detto lavoro invisibile).

Il dato è superiore di ben 13 punti dalla media europea (30.5%), così come rispetto a Spagna e Francia (30.1% e 29.3%). In ottica di potenziale rischio, è importate sottolineare l’eterogeneità territoriale del fenomeno. Se tutto il Nord e parte del Centro non si supera il 40% di inattività, regioni come Campania, Calabria e Sicilia si attestano attorno al 60%.

Per colmare questo divario e contrastare il fenomeno della violenza economica di genere sono necessari provvedimenti efficaci e misurabili: oltre a iniziative di emancipazione, occorrono maggiori tutele legali e interventi mirati a garantire l’autonomia femminile.

Come contrastare la dipendenza economica

Nel caso in cui la dipendenza economica dal proprio partner diventi d’intralcio al processo di fuoriuscita dalla violenza per una donna, lo stato italiano può intervenire attraverso il reddito di libertà. L’introduzione di questa misura rappresenta un primo passo verso il riconoscimento dell’interdipendenza delle diverse forme di violenza, e dell’importanza di un percorso di emancipazione che tenga conto di molteplici aspetti nella vita delle donne un primo passo verso il riconoscimento dell’interdipendenza delle diverse forme di violenza, e dell’importanza di un percorso di emancipazione che tenga conto di molteplici aspetti nella vita delle donne.

La misura consiste in un trasferimento mensile di 400 euro con l’obiettivo di preservare l’indipendenza abitativa della donna e il percorso di istruzione dei figli. Con la legge di bilancio 2024 è stato annunciato un aumento strutturale delle risorse destinate al fondo a 15 milioni di euro annuali, aumentandolo del 40% rispetto all’anno precedente. Questo si rivela necessario guardando al rapido esaurimento dei fondi e alle domande in esubero accumulatesi negli ultimi anni. È centrale sottolineare come misure analoghe al reddito di libertà intervengano soltanto a posteriori, senza considerare la dimensione della prevenzione della violenza Alternative efficaci devono partire da un approccio più sistemico, che tenga in considerazione fattori sia strutturali che culturali. In questa direzione esistono iniziative di sensibilizzazione con l’obiettivo di rendere i segnali d’allarme maggiormente riconoscibili e diffondere buone pratiche rispetto al monitoraggio delle proprie finanze nel contesto di coppia.

Perché servono i dati sui conti bancari

Un primo passo in questa direzione deve essere la documentazione del fenomeno attraverso i dati. Per esempio, non esistono numeri ufficiali rispetto alla proprietà di conti correnti. Alcune indagini indipendenti hanno mappato il fenomeno a livello nazionale evidenziando importanti segnali d’allarme. Secondo una indagine del 2017, una donna intervistata su tre non possiede un conto corrente personale o lo possiede ma non lo gestisce in modo autonomo. Un’analisi del 2023 riporta che le donne in questa situazione sarebbero il 17%. La mancanza di questi dati da fonti istituzionali non è un problema solamente italiano, ma comunitario come sottolineato dall’Istituto Europeo per l’Uguaglianza di Genere. Sul tema è intervenuta anche la ministra alle pari opportunità Roccella, che ha attivato un protocollo di collaborazione con l’associazione Bancaria Italiana (ABI) per iniziare a monitorare la violenza economica con maggiore attenzione e pianificare una strategia di prevenzione. Perché un’analisi rigorosa dei dati può aiutarci a comprendere la dimensione sistematica e strutturale della violenza di genere e indicarci la strada per prevenire il suo insorgere e favorire una società più equa.

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Tortuga è un think-tank di studenti, ricercatori e professionisti del mondo dell’economia e delle scienze sociali, nato nel 2015. Attualmente conta 56 membri, sparsi tra Europa e il resto del mondo. Scriviamo articoli su temi economici e politici, e offriamo alle istituzioni, associazioni e aziende un supporto professionale alle attività di ricerca o policy-making. Nel 2020 è uscito il libro “Ci pensiamo noi”.

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