Storie Web giovedì, Maggio 9
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Certe canzoni sembrano sempre essere state con noi. Diffuse nell’aria che respiriamo come le parole di un modo di dire o i passaggi di una ricetta tradizionale, alcune composizioni hanno radici e diramazioni complicate da districare, degne di un lavoro filologico che spesso finisce per infrangere mitologie consolidate. Ad esempio, è quasi unanime l’opinione che Bella ciao non sia mai stata un canto dei partigiani nel corso dei due anni di guerra e resistenza contro l’occupazione tedesca sostenuta dal regime fascista, tra il 1943 e il 1945. Molti libri ripercorrono con perizia e studio la genesi e l’ascesa di Bella ciao, arrivando alla conclusione che la sua vera e propria origine sia da collocare quasi certamente dopo la guerra, non più tardi del 1963, quando compare nelle prime incisioni (di Yves Montand) e nella rappresentazione intitolata proprio “Bella ciao” da parte del Nuovo Canzoniere Italiano al Festival di Spoleto di quell’anno.

La sua radice è ben più remota: nel 1888 il politico nonché filologo e poeta Costantino Nigra raccolse probabilmente il primo nucleo del brano nella sua collezione di canti popolari piemontesi, allegandovi anche una “lezione veneziana”, testimoniando che a quell’epoca un pezzo di Bella ciao (o della sua antenata) era già diffusa nel Nord Italia. Il resto della storia (l’aggiunta del refrain “o bella ciao, etc.”; la stesura delle altre strofe; l’adattamento al tema storico partigiano; la composizione della melodia) ci avvicina nel tempo e ci porta ancora in altre direzioni, senza aiutarci però a rispondere a una domanda: come mai Bella ciao è così efficace e memorabile? Cosa l’ha aiutata a diventare un inno internazionale, forse la canzone italiana più conosciuta con Nel blu dipinto di blu e O Sole Mio?

Per questo dobbiamo provare a considerare Bella ciao non solo come il prodotto del suo tempo, una canzone di ribellione universale e di celebrazione del coraggio giovanile all’alba del periodo in cui le giovani generazioni si apprestavano a cambiare il volto del mondo; il baluardo sonoro alle nostalgie fasciste; l’inno di una lotta che qualcuno considerava non ancora terminata. In questo senso, il suo successo è proporzionale all’esempio che i partigiani italiani hanno rappresentato per tutte le insurrezioni contro un potere oppressivo o un’occupazione illegale. Certamente per molti anni la sua eredità è stata più universale di quanto non si pensi, a differenza dell’inno prettamente comunista (ed effettivamente cantato dalle Brigate Garibaldi durante la Resistenza) Fischia il vento. Ma queste ragioni storiche e politiche sono troppo complesse per un’umile rubrica sulle canzoni pop. Possiamo, invece, provare a capire quali sono i meriti lirico-musicali intrinseci del brano, che ce lo fanno piacere anche oggi, a 79 anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.

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Intanto per cominciare, Bella ciao è una perla di storytelling musicale: se chiedessi in giro di cosa parla, chiunque ti risponderebbe “della Resistenza”. Eppure non espone in modo esplicito tappe importanti della guerra come la Canzone dell’otto settembre o Compagni fratelli Cervi; non identifica una formazione o una provenienza particolare come La Brigata Garibaldi o Partigiani di Castellino, fungendo insieme come occasione per rinsaldare l’identità (anche politica) della compagnia; non descrive puntualmente immagine e valori del partigiano come Il bersagliere ha cento penne né inquadra la guerra, la giovinezza, l’amore in modo pedissequo come Cosa rimiri mio bel partigiano. Rispetto a questi e ad altri esempi, Bella ciao racconta invece la storia per istantanee, come in un montaggio cinematografico.

L’intento narrativo è forte fin dal primissimo verso, che ci fornisce una generica ma circostanziata collocazione temporale (“Una mattina”); tutta la prima strofa scorre fluida come un abile movimento di macchina che dall’interno della camera da letto esce sotto il cielo mattutino, allarga l’inquadratura e infine mostra le truppe nazifasciste che marciano insieme sull’Italia dell’armistizio di Cassibile. Il resto della vicenda viene raccontato da un punto di vista interiore: ad essere descritti, fra sprazzi di eventi, sono i desideri, le speranze, le paure di chi ha scelto di opporsi all’invasore. Questi sentimenti non solo si susseguono, ma si incatenano fra loro, come tra la seconda e la terza strofa, dove lo stesso verbo (“morire”) viene usato in due modi molto diversi, ma allacciati fra loro: prima l’annichilimento dell’invasione, quindi la consolazione di morire tra compagni che condividono gli stessi valori di civiltà – la sepoltura; una morte come sacrificio che riscatta la morte prima di tutto interiore di chi cede alla tirannia. Segue una quarta strofa di nuovo “in esterna”, con l’immagine della sepoltura all’ombra di un fiore, oggetto che unisce tematicamente le due metà della canzone, accostando il tema della morte a quello della giovinezza. Si capisce, ora, che la “bella” a cui si dice insistentemente “ciao” non è una persona, ma è la propria età innocente. Infine, seguono due strofe incentrate sul valore di questa morte come sacrificio, che svelano il senso proprio come nel finale di un film.

Dietro le tappe spedite e realmente iconiche di questo sintetico racconto di guerra partigiana c’è un forte apparato simbolico. Da una parte il dualismo giovinezza-morte è tipico del ritratto dell’eroe che si vede in tanta poesia classica e tradizionale dell’intero bacino del Mediterraneo e oltre. L’eroe è colui che abbraccia la caducità della vita, ben consapevole della sorte che lo aspetta. In questo senso, Bella ciao è un canto dedicato all’eroe (dal suo punto di vista) che più tipico non si può: le immagini della “bella morte” “causata da Ares”, come direbbe Alceo sono tipiche della poesia greca antica, dal modello omerico (Iliade, XXII 73) alle imitazioni di Tirteo. Il giovane, in quanto raffigurazione ambulante della precarietà delle cose, è proiettato già verso la sua inevitabile e tragica fine. Ma queste parole non sono pessimiste e macabre come si potrebbe pensare, né ispirano il militarismo di un lirico greco. Bella ciao, insomma, non è una canzone sull’onore militare e patriottico. Usando il fiore come monumento a testimonianza del suo sacrificio, il protagonista comunica semmai il suo bisogno insopprimibile di libertà e di vita. Un bisogno personale, ma anche comune: offrendo la vita, il partigiano permette a tutta l’Italia di riconquistare la felicità, e in un certo senso la giovinezza. Con altre parole, e in modo senz’altro più implicito, è facile leggere dentro la retorica di Bella ciao quello stesso spirito che anima la poesia “I partigiani” del romagnolo Nino Pedretti: non è per ragioni di gloria che il partigiano prende e parte, ma è per una pulsione vitale più profonda e naturale, per il rigetto stesso di cosa il fascismo e la guerra significano, cioè morte e oppressione.

Per quanto magistrale nella sua semplicità e nelle parole d’ordine che sfoggia, il testo non è la sola forza di Bella ciao. La melodia, memorabile ed efficace come poche, è da tenere in considerazione. E anche qui emerge un senso della struttura (consapevole o meno) che non ha pari. Ogni strofa è una piccola storia scritta con le note, esaustiva nelle sue singole porzioni, soddisfacente oltre misura nel suo intero sviluppo. Si comincia con una frase composta di due passaggi da cinque sillabe (“una mattina / mi son svegliato”), ciascuno disposto su quattro note e chiuso da una cadenza dalla nota mediante alla tonica che ci fa sentire tutto il peso della tonalità minore: per fare un esempio della sua efficacia, pensa alle ultime due note del riff di Smoke on the Water, che fanno esattamente quel movimento sopra lo stesso genere di accordo. La primissima frase, insomma, è già una storia a sé. Questa frase sinuosa e sentimentale ricorda il blues ma anche la musica klezmer; quella che – secondo alcuni studiosi di Bella ciao come l’ingegner Fausto Giovanardi che per primo avrebbe notato la somiglianza con Koilen di Mishka Ziganoff  – sarebbe forse (improbabile) una fonte di questo primo frammento.

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La seconda sezione della melodia introduce l’elemento che funge da refrain – probabilmente estratto da un’ancestrale filastrocca infantile o dalla Bevanda sonnifera. Ricontestualizzato in un racconto di guerra, “o bella ciao” ha l’amaro sapore del saluto a una giovinezza, libertà, vita che sfugge tra le dita. Nella sua versione più elementare, questo segmento è certamente scarno: ma qualsiasi versione cantata in coro, con voci armonizzate, dimostra la ricchezza nascosta del passaggio, dove come minimo si può inserire una settima di dominante che ci spinga con forza nella terza sezione della melodia (come nella versione di Marc Ribot e Tom Waits).

Un modo più chiaro per rappresentare la potenzialità inespressa della giovinezza non si potrebbe trovare. Serve l’ultima parte della strofa, la più densa armonicamente, per dargli uno sfogo sonoro. Girando sopra gli accordi di sottodominante (minore) e dominante (maggiore), le note di questa sezione raggiungono altri spazi, salgono e poi scendono, e concludono con un fraseggio che ha un sapore classico, quasi da Bach, nel riavvicinarsi alla cadenza finale, la stessa della prima sezione. In questo modo, tutta la tensione in potenza della strofa viene fatta deflagrare nell’ultimo verso, vero cuore pulsante della canzone. Non è un caso che questi versi racchiudano anche il 90% della storia: tanto che, se facessimo un collage di questi, ne potremmo estrarre un riassunto attendibile, per quanto macchinoso (ho trovato l’invasor – mi sento di morir – tu mi devi seppellir – sotto l’ombra di un bel fior).

Se obbedissimo agli standard del pop, potremmo dire che ogni strofa di Bella ciao è una canzone in miniatura: verso – ritornello – verso – bridge; ciascuno con tutte le funzioni specifiche di ogni sezione al posto giusto: esposizione – enunciazione del tema – nuova esposizione – riscrittura del tema e svelamento emotivo. Chiunque abbia composto questo testo, insomma, sapeva farci con le parole e con la musica. E senza bisogno di prendere lezioni dai Beatles o da Michael Jackson. Ogni parte del brano comunica il senso del tutto con potenza ed efficacia, per quanto in miniatura. E allo stesso tempo, ogni sezione è un tassello senza il quale il puzzle non potrà mai essere completo. Bella ciao non è un documento storico della Resistenza, certo, né è paragonabile a un inno che elenca per filo e per segno i valori e le parole d’ordine di chi ha combattuto. Ma, grazie alla straordinaria capacità di sintesi della musica, Bella ciao fa qualcosa di ancora più straordinario: racchiudere l’esperienza umana di chi ha preso le armi contro i nazifascisti, e rappresentarle nella sua complessità. E così, chiunque partecipi al suo ascolto, cantando o battendo le mani, si ricollega non a un evento specifico di 80 anni fa, né a una memoria individuale o familiare, ma a una storia di valori più universale, che unisce (o dovrebbe unire) tutti gli italiani, a prescindere dal credo politico.

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Federico Pucci è un giornalista musicale. Ha collaborato con ANSA dal 2012 al 2019, occupandosi di spettacoli e cultura per la sede di Milano. Tra il 2020 e il 2023 ha diretto il magazine musicale online Louder, creando e producendo oltre 200 videointerviste e format originali. Nel 2019 ha scritto un libro sui sessant’anni di storia di Carosello Records. Ogni settimana pubblica una newsletter chiamata Pucci.

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