Storie Web sabato, Aprile 27
Notiziario

La revisione dello strumento militare, appena diventata legge, ha previsto un modello professionale da 160mila unità, contro le 150mila unità a cui si sarebbe dovuto scendere entro quest’anno. Ma è ancora troppo poco, secondo il Capo di stato maggiore della Difesa, l’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, che martedì 26 marzo in audizione informale presso le commissioni Difesa e Esteri di Camera e Senato, ha espresso con nettezza la sua posizione: «Siamo assolutamente sottodimensionati: 150mila è improponibile, 160mila che è quello che attualmente ci è stato approvato è ancora poco, e con 170mila siamo al limite della sopravvivenza. Nell’esercito abbiamo turni di impiego massacranti. Sono cambiati i tempi, sono cambiate le minacce, e il nostro impegno è sempre più massivo. Vogliamo una difesa europea, e questo ci richiederà tanto. Ho fatto richiesta per avere più uomini. Continuerò a chiedere piu uomini fino a che non mi cacciano».

La legge Di Paola del 2012

Per capire quali passi Cavo Dragone (che a novembre terminerà il suo incarico per assumere dal prossimo anno la presidenza del Comitato Militare dell’Alleanza Atlantica) chiede di compiere è bene chiarire come si è arrivati sin qui. Era stata la legge 244/2012, nota come legge Di Paola dal nome del ministro Giampaolo Di Paola, a prevedere che entro il 2024 la dotazione organica complessiva delle Forze armate si dovesse ridurre dalle 190mila di allora a 150mila (individuate in 89.400 nell’Esercito, 26.800 nella Marina e 33.800 in Aeronautica) e gli organici del personale civile dalle 30mila unità di allora a 20mila. In aggiunta, la delega stabiliva un riequilibrio generale del bilancio della “funzione difesa”, ripartendolo orientativamente in 50% per il settore del personale, 25% per l’esercizio e 25% per l’investimento. Erano i mesi tumultuosi del Governo Monti e della spending review e l’obiettivo era quello di realizzare uno strumento militare di dimensioni più contenute, ma più sinergico, qualificato ed efficiente nell’operatività, pienamente integrato nel contesto dell’Unione europea e della Nato. Al prezzo, però, di tagli alla spesa e ai reclutamenti.

Lo stop del 2022

L’obiettivo si è rivelato impossibile da centrare. Il documento programmatico 2021-2023 della Difesa segnalava che gli organici erano scesi, ma non abbastanza: 172.657 unità nel 2017, 171.079 nel 2018, 169.855 nel 2019 e poi 169.360 e 169.086 nel 2020 e 2021 e ancora, si calcolava, 166.484 e 165.529 nel 2022 e 2023. Anche sul fronte del bilancio, come rilevato nel 2020 dalla Corte dei conti, le spese per il personale continuavano a gravare per il 65,7% (ma comunque in discesa rispetto al 74,4% del 2019), la componente “esercizio” era salita solo al 17,6% e gli investimenti erano cresciuti solo al 16,7 per cento. «Lo squilibrio tra le componenti – sentenziava la magistratura contabile – non appare coerente con l’esigenza di riforma dello strumento militare di cui alla legge n. 244/2012». E così, nel 2022, con la legge 119 approvata sul finire della XVIII legislatura, il target di riduzione dei militari a 150mila è stato di fatto eliminato, fissando invece l’asticella a 160mila unità a decorrere dal 1° gennaio 2034 e delegando il Governo alla revisione dello strumento militare, in particolare per aumentare le dotazioni organiche con militari «ad alta specializzazione»: medici, personale delle professioni sanitarie, tecnici di laboratorio, ingegneri, genieri, logisti dei trasporti e dei materiali, informatici e commissari, in servizio permanente. Sono, in gran parte, i militari specializzati arruolati durante la pandemia. Si è prevista, inoltre, la delega a istituire una riserva ausiliaria dello Stato e la riforma della sanità militare, nonché la possibilità di intervenire con misure di flessibilità nelle dotazioni delle singole forze armate.

Il nuovo strumento militare a 160mila unità

Si è arrivati così al decreto legislativo 185 del 23 novembre 2023, messo a punto dal ministro della Difesa del Governo Meloni, Guido Crosetto, e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 290 del 13 dicembre 2023 che, in attuazione della delega, ridetermina a 160mila unità il modello professionale delle Forze armate, a decorrere dal 1° gennaio 2034. Le 10mila unità di personale in più vengono distribuite tra 3.700 all’Esercito, 3.250 alla Marina militare e 3.050 all’Aereonautica militare. L’incremento di personale riguarda per il 50% ufficiali e sottufficiali e per il restante 50% graduati e militari di truppa. La ripartizione complessiva prevede dunque 93.100 militari nell’Esercito, 30.050 nella Marina e 36.850 in Aeronautica. Per sopperire alla carenza di professionalità ad alta qualificazione, viene inoltre introdotta la possibilità, prima limitata agli ufficiali medici, di reclutare con concorsi straordinari ufficiali in servizio permanente con il grado di capitano e di reclutare ufficiali in ferma prefissata quadriennale da impiegare per la difesa delle infrastrutture spaziali e dello spazio cibernetico. Un’altra frontiera caldissima.

La fotografia attuale e i timori per l’invecchiamento

I numeri del nuovo strumento sono molto vicini alla situazione esistente: l’ultima istantanea scattata a dicembre 2023 contava proprio circa 160mila unità: 93.800 militari nell’Esercito, 28mila circa in Marina e 38mila in Aeronautica. A preoccupare gli osservatori è l’età media sempre più elevata. Per i marescialli è arrivata a 52,9 anni nell’Aeronautica, 49,21 anni nell’Esercito e 50 anni circa in Marina. Per gli ufficiali di Aeronautica ed Esercito è di 46 anni, per quelli della Marina 45. Il quadro più critico è ritenuto quello dei graduati, perché spesso impegnati in scenari impegnativi: per Marina ed Esercito è 41 anni, per l’Aeronautica 38. Per aumentare ancora la dotazione complessiva, come auspicato da Cavo Dragone, bisognerebbe approvare una nuova ulteriore modifica normativa e, soprattutto, mettere mano al portafoglio. Ma la coperta della finanza pubblica è corta.

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