Non è un periodo facile quello che sta attraversando il settore della carne rossa in Italia. Da un lato i costi sostenuti dagli allevatori rimangono su livelli elevati. E, in un circolo vizioso, spingono in alto i prezzi, contribuendo alla stagnazione dei consumi. Dall’altro, gli scarsi margini di guadagno, le poche prospettive di crescita del mercato e le incognite sulle regole anti-emissioni del green deal europeo frenano gli investimenti e fanno aumentare la dipendenza dall’estero, soprattutto per l’approvvigionamento di vitelli.
Anche se nella prima parte dell’anno si è assistito a un recupero della produzione nazionale di quasi il 10% sullo stesso periodo del 2023, secondo l’ultima fotografia scattata da Ismea, l’Italia dipende per il 60% dall’estero per il suo fabbisogno di carne bovina. Una quota che comprende sia gli animali vivi importati (per essere poi ingrassati e macellati) sia il prodotto proveniente direttamente da oltreconfine. Il tasso di autosufficienza è infatti sceso nel 2023 al 40,3%. «È la quota più bassa degli ultimi dieci anni e resta tra le più basse nell’Unione europea», sottolinea Ismea. Il rapporto nel 2010 era invertito, con il livello di autoapprovvigionamento che quindi è sceso di 20 punti in meno di 15 anni, con un’accelerazione nel post Covid.
Patrimonio bovino impoverito
Secondo i dati dell’Anagrafe nazionale zootecnica, tra il 2019 e il 2023 il numero degli allevamenti bovini con “orientamento produttivo carne” è diminuito di circa 15mila unità, passando da 100mila aziende a 85mila, con una contrazione del patrimonio di oltre 73mila capi. A livello di produzione, comunque, l’Italia rimane al terzo posto in Europa (insieme alla Spagna) con l’11% della produzione e un giro d’affari di 6,3 miliardi. «Malgrado ciò – sottolinea Ismea – presenta un dato assai differente dagli altri Paesi in termini di autosufficienza: a fronte di un tasso medio di dell’Ue del 103% si passa dal 549% dell’Irlanda, che fornisce carni soprattutto in Uk, alla Francia con il 139%, alla Spagna con il 115%, alla Germania con il 105%».
«La bilancia commerciale è in deficit di 3,5 miliardi, dato negativo secondo solo all’ittico – commenta Fabio del Bravo, responsabile della Direzione filiera e analisi mercati di Ismea – . C’è un problema di chiusura degli allevamenti per costi, mancanza di attrattività e di ricambio generazionale che vuol dire anche spopolamento e desertificazione economica e sociale dei territori. L’85% degli animali vivi proviene dalla sola Francia e basta poco per bloccare la macchina produttiva italiana. Serve una migliore riconoscibilità del prodotto di qualità e una maggiore aggregazione e compattezza tra gli anelli della filiera».
Assocarni: supportare la filiera
«Occorre finanziare in modo mirato gli allevatori che intendono sviluppare la linea vacca vitello – dice il presidente di Assocarni Serafino Cremonini – in particolare attraverso l’uso delle aree collinari e delle zone montane del meridione e il successivo ingrasso nelle stalle della pianura padana. In questa maniera riusciremmo a ridurre la dipendenza dalle importazioni di vitelli da ristallo, il cui costo è sempre più elevato e la disponibilità sempre minore. Una misura del genere tra l’altro valorizzerebbe la carne prodotta in Italia e le pratiche sostenibili in linea con le politiche Ue. È essenziale sostenere chi alleva vacche nutrici e favorire un passaggio generazionale che potrà avvenire solo se questo lavoro, non semplice, verrà adeguatamente remunerato». Un aiuto in questo senso potrà arrivare dai contratti di filiera che dovrebbero essere in partenza l’anno prossimo grazie ai fondi del Pnrr.