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Notiziario

Da un lato hanno un peso sul Pil nazionale e sull’occupazione che supera di circa il 10% quello delle Pmi nelle altre economie avanzate, dall’altro hanno scarsa propensione alla scalabilità e scontano un gap di produttività con le grandi imprese più alto del 5% rispetto alla media delle economie avanzate analizzate, molto vicino a quello di alcuni Paesi emergenti. Le micro, piccole e medie imprese italiane rappresentano una risorsa ad alto potenziale. Che, tuttavia, rimane in parte inespresso.

A fotografare questa situazione è il report «A microscope on small businesses» realizzato a maggio 2024 da un pool di esperti del McKinsey Global Institute. Il report prende in esame le micro, piccole e medie imprese (Pmi) che operano in diversi settori – dal manifatturiero alle costruzioni, dal commercio all’Ict – in 16 Paesi del mondo: dieci di questi appartengono a economie che vengono definite avanzate e che, oltre all’Italia, includono Stati Uniti, Regno Unito, Germania, Giappone, Spagna, Australia, Polonia, Portogallo e Israele; sei, invece, sono inseriti tra le economie emergenti (Brasile, Messico, Indonesia, India, Nigeria, Kenya). Nel complesso, le Pmi generano circa il 50% del Pil nei Paesi analizzati e contribuiscono per il 40% all’occupazione. In Italia la situazione è diversa: le piccole e medie imprese contribuiscono per il 63% al valore aggiunto e per il 76% all’occupazione. Valori che risultano superiori a quelli medi delle economie avanzate esaminate, rispettivamente 54% (contributo al Pil) e 66% (occupazione).

Il focus sulla produttività

Lo scenario cambia se si guarda alla produttività, dove il contributo delle piccole realtà è più ridotto: le Pmi italiane che hanno un tasso di produttività pari a quello delle imprese più grandi sono il 55% del totale, contro il 60% medio delle economie avanzate, guidate dal Regno Unito con l’84 per cento. «Le piccole imprese sono tendenzialmente meno produttive delle grandi – spiega Marco Piccitto, managing partner McKinsey per il Mediterraneo – e in Italia questo appare più evidente per il peso che queste hanno sul Pil, che è quasi il 10% in più della media delle economie avanzate analizzate. Le piccole imprese italiane presentano una dimensione inferiore alla media ed è quindi meno probabile che diventino grandi aziende».

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La difficoltà delle realtà imprenditoriali più piccole a fare un balzo dimensionale emerge in modo lampante se si analizza il numero di aziende che, essendo state Pmi in un momento storico successivo al 2000, nel 2022 erano aziende quotate ad alta capitalizzazione: solo 5 su 100, contro le 44 dell’Australia e le 42 di Israele. La percentuale italiana – pari a quella della Spagna – è quasi quattro volte inferiore alla media. «I fattori che incidono su produttività e scalabilità delle Pmi sono tre: tecnologia, talenti e capitale», spiega Piccitto. Secondo l’esperto una delle ragioni che ostacolano la crescita delle piccole imprese nazionali è la «minore propensione a operare nel settore della tecnologia, che insieme a quello minerario è uno di quelli in cui la scalabilità si è dimostrata maggiore, con il 30% circa delle imprese passate da Pmi a grandi quotate negli ultimi due decenni, e la minore adozione di tecnologia». Alla mancanza di un propellente tecnologico si aggiunge quella « di competenze e talenti che, come la tecnologia rappresentano un importante driver di crescita» e che spesso, in aziende molto piccole e a gestione familiare, non sono oggetto di investimenti. Anche per via di «un mercato di capitali poco sviluppato nei confronti delle Pmi». Che, dunque, limiterebbe l’accesso ai capitali, ma anche a incubatori e acceleratori per sviluppare una serie di competenze manageriali.

Il potenziale disperso

Il potenziale disperso è alto: da una simulazione di McKinsey emerge che, se si portasse la produttività delle Pmi italiane allo stesso livello di quella dei “campioni” di produttività nei diversi settori tra i Paesi analizzati dal report, si otterrebbe un incremento del Pil pari al +6,4 per cento. Una percentuale di crescita che pone l’Italia al secondo posto tra le economie avanzate dietro al Giappone, quasi a pari merito con la Polonia. E fa spiccare il nostro Paese rispetto alla media che è del +5% per le economie avanzate e del +10% per quelle emergenti.

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