Sono difensivi per definizione, ci investono i risparmiatori più prudenti ma che vogliono mettere un piede in Borsa e alla lunga pagano (quasi) sempre. Sono i titoli farmaceutici che, proprio per le loro caratteristiche, sono quelli più presenti sia nei portafogli delle famiglie, sia, e soprattutto, in quelli dei gestori di patrimoni.
Lo scenario
Il loro appeal ha ragioni ben precise: di farmaci c’è sempre bisogno, la ricerca va avanti a spron battuto, la vita umana si allunga con un conseguente allargamento del bacino di utenza e la tecnologica offre un grande supporto per l’evoluzione del settore. C’è però una variabile che potrebbe avere conseguenze negative sul futuro delle aziende pharma europee (e non solo): la decisione del presidente Trump di ridurre anche fino all’80% il prezzo dei farmaci americani. Una novità che, unita agli annunciati dazi, potrebbe ripercuotersi sul business delle società del vecchio Continente, visto che quello americano è il principale mercato di sbocco. Un mix in grado di ridurre in maniera significativa i margini di profitto. Ma c’è anche chi pensa che l’intervento sui prezzi non si concretizzerà.
Le opinioni
«Riteniamo che sia molto improbabile che l’amministrazione statunitense riduca i prezzi dei farmaci come indicato nell’Ordine Esecutivo – spiega Linden Thomson, Senior Fund Manager, Healthcare di Candriam -. Quest’ultimo può essere considerato sicuramente una lettera d’intenti, anche se la conferenza stampa è stata relativamente favorevole al settore biofarmaceutico e si è focalizzata più sulle questioni legate alle differenze di prezzo che sui prezzi stessi».
Attenzione all’esposizione in Usa
Carlo De Luca, responsabile Am di Gamma Capital Market evidenzia che le multinazionali europee (Sanofi, Roche, Novartis, Novo Nordisk) realizzano il 30%–50% dei ricavi negli Usa e come i margini americani siano vitali per la loro redditività complessiva. «In Europa Roche ha il 42% margini che proviene dagli Usa, Novartis il 35% e Sanofi il 38%, mentre in America tra le società più impattate ci sono Eli Lilly con il 50% dei ricavi Usa, Pfizer con il 45%, Merck con il 40% e poi Bristol Myers, Abbvie, Amgen e J&J. Il maggiore rischio quindi è per quelle società che registrano più ricavi laddove c’è minor controllo ovvero gli Usa, perché in Europa ci sono già delle regolamentazioni sui prezzi».
E chi ha i titoli farmaceutici in portafoglio cosa deve fare? «Al momento – conclude De Luca – il detto “Pharma come bond” non vale più, per cui occorre sottopesare i titoli altamente esposti a Medicare e Medicaid e in generale tutte quelle società che registrano molti ricavi negli Stati Uniti».