
Ridimensioniamo subito un’idea assai diffusa, quella che il vino migliori automaticamente con l’invecchiamento. Non è vero! Se un vino nasce male, morirà male. Un po’ come per gli esseri umani che se partono storti, con un brutto carattere, difficilmente gli anni li raddrizzeranno (e, per quanto ne sappia, nemmeno la psicanalisi sa fare i miracoli). Un vino mediocre, col tempo, non sboccia: appassisce. Fine della poesia.
Questa verità va ripetuta forte e chiara soprattutto ora, sotto consegna dei regali natalizi; le famose bottiglie di provenienza casuale per te “che te ne intendi”. Pacchi aziendali contenenti rossi granitici, bianchi anonimi e l’immancabile etichetta scintillante che promette meraviglie ma finirà dimenticata in cantina fino alla prossima ristrutturazione. È qui che nasce il dilemma: cosa posso conservare davvero? E per quanto tempo?
Partiamo dal punto dolente: la maggior parte dei vini non è concepita per l’invecchiamento. È fatta per essere bevuta entro due o tre anni. Vivono, brillano e poi muoiono. Se li conserviamo confidando nel colpo di scena finale, l’unico finale sarà un odore di buccia di mela corrugata e una tremenda delusione esistenziale. Quindi, se a Natale vi regalano un rosso morbido, un Primitivo conviviale, un Chianti qualsiasi o un bianco da scaffale democratico: stappateli e beveteli subito, senza ansie. È l’unica scelta sensata. I grandi rossi da invecchiamento sono altri e a dire il vero qualcuno di loro non è mai pronto. Sul resto non ha senso insistere troppo. Non oltre i cinque anni direi per la maggior parte, anche tra i più “blasonati”, a meno che non si tratti di riserve, di Brunello di Montalcino, di Barolo, di Chianti Classico riserva o Gran Selezione, di Amarone, di Taurasi, giusto per fare alcuni esempi.
Poi sfatiamo un pregiudizio coriaceo: “I bianchi non invecchiano, vanno bevuti giovani”. Non è così. Alcuni bianchi diventano molto interessanti col tempo e più facilmente abbinabili a tavola, soprattutto se provengono da zone vocate: Riesling tedeschi e austriaci, Chenin Blanc della Loira, certi Verdicchio, qualche bianco Friulano molto ben fatto, i grandi Chardonnay, i Fiano di Avellino, gli altoatesini davvero seri (sì, anche un Pinot Bianco strutturato può sorprendere). Hanno acidità, struttura, nervo.
E gli spumanti Metodo Classico e Champagne? Stessa logica, con un elemento in più da considerare: la carbonica. Non so voi, ma io non amo l’effetto necrologio. Quando apro uno spumante il tappo deve avere dignità, se fa “pluff!” siamo già nel reparto geriatria. Il perlage è fondamentale: altrimenti perché sottoporre il vino a tutta la complessità e tecnologia della spumantizzazione?











