Storie Web venerdì, Marzo 21
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Riccardo Cocciante in un’intervista a Fanpage riavvolge il nastro della sua carriera. Dal successo di Margherita che non doveva nascere a Bella senz’anima che è stata la vera rottura, da Notre Dame de Paris che tornerà in Italia nel 2026 passando per Celeste nostalgia e il fenomeno Era già tutto previsto, riesplosa 50 anni grazie al film Parthenope: “Con Sorrentino ci siamo detti poche cose precise, amo che le mie canzoni vivano oltre me”.

Per tutti noi in Italia è Riccardo Cocciante, ma per ragioni di origini e vicissitudini della vita è anche Richard. A 78 anni uno dei cantanti più popolari delle ultime decadi continua a portare in giro per teatri e arene la sua musica con una serie di date evento in tutto il Paese e si prepara al ritorno di Notre Dame de Paris, di cui sceglierà e preparerà il nuovo cast. Una fase iperattiva che racconta in questa lunga intervista a Fanpage, riavvolgendo il nastro di una poderosa carriera iniziata più di 50 anni fa “per colpa” dei suoi capelli. Si parla dei successi clamorosi, da Margherita a Bella senz’anima, di trionfi sanremesi e di cinema, da Celeste Nostalgia in Sapore di Mare a Era già tutto previsto in Parthenope di Paolo Sorrentino, fino al grande “equivoco” di A mano a mano con Rino Gaetano. Fare arte fino alla fine, per una persona che, come racconta lui, non saprebbe dove altro andare.

Nato in Vietnam da padre italiano e madre francese, cresciuto in Italia, poi una vita tra la Francia e il resto del mondo. Riccardo e Richard: come ha vissuto questo sdoppiamento?

A me piacer molto l’idea di appartenere a due culture bellissime, cugine e talvolta incompatibili. La cosa bella per me, nella composizione, è passare dall’una all’altra. Ho una parte francese, di maniera, che diventa italiana quando subentra la melodia. Non c’è conflitto, anche nel mestiere alterno le due cose. Non ho problemi nel sentirmi l’uno e l’altro.

Achille Lauro a sorpresa sul palco di Riccardo Cocciante a Milano: cantano assieme A mano a mano

In una vecchia intervista aveva raccontato che l’inizio della sua carriera è stato una quesitone di capelli.

Mio padre a un certo punto mi chiese di andare a lavorare, dopo aver fatto la scuola alberghiera sono entrato in albergo, facendo prima due anni da cameriere, per poi diventare segretario d’albergo in un grande hotel di Roma. Lavoravo bene, anche se scappavo sempre per andare a suonare. Un giorno, il capo ricevimento mi chiama e mi dice “Cocciante, lei lavora molto bene, ci piace molto, ma non può continuare ad avere questi capelli”. Era molto dispiaciuto, ma doveva dirmelo, ci sono leggi in albergo da rispettare.

Lei scelse di tenersi i capelli.

Ho approfittato un po’ di quella occasione, avevo una liquidazione che era abbastanza buona. Mi sono dato un anno per realizzarmi, trovare il modo di fare quel che volevo. Da quel momento, per fortuna, pian piano ce l’ho fatta.

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I capelli sono stati anche un portafortuna?

Forse sì, in fondo tutto serve nella vita. In quel caso, il fatto di lasciare l’albergo e spingermi per forza in un contesto altro, è servito. Devo dire che quello che mi ha sempre aiutato sono state le persone intorno a me. Forse non ho mai deciso io personalmente di fare provini, spesso sono stati altri a spingermi. “Sei bravo, perché non provi?”. Ho sempre avuto bisogno di persone intorno che mi suggerissero cosa fare, perché in fondo il mio obiettivo non era quello di esibirmi, ma di entrare nell’ambito della musica, che è una nuvoletta, uno spazio non coerente con tutta la vita reale che abbiamo intorno. Ci vuole gente reale che suggerisse di sfruttare questa sorta di talento innato.

Diverse collaborazioni con grandi parolieri, da Luberti a Mogol, che si sono sposati così bene alla sua musica da produrre un paradosso: dare a molti l’impressione che Cocciante scrivesse le parole delle sue canzoni. 

Tutto è sempre partito dalla musica, l’autore a me vicino carpiva una musica che già esisteva, delle parole impresse dentro che forse non sapevo capire io. Serviva qualcuno che avesse il talento di scrivere e ho amato queste persone che lo hanno fatto con arte. È stato importante perché ho capito come potessi esprimermi.

Quindi “Margherita”, “Bella senz’anima”, “Se stiamo insieme” sono nate tutte dalla musica?

Sì, spesso mi hanno detto che nella mia musica ci fosse già tutto, un argomento che bisognava solo mettere in parole. Anche Notre Dame de Paris, basato su un genere che il più delle volte parte almeno da una falsariga di testo, un libretto, è nato dalla musica. Tutti i parametri sono invertiti e tutti gli autori con cui abbia lavorato, hanno capito che il mio modo di esprimermi musicalmente aveva tutti gli elementi. Spesso sono allegorie, non descrivo esattamente la situazione, descrivo il sentimento, ciò che c’è dietro, come un pittore impressionista che descrive un paesaggio. La mia modalità espressiva va più in questa direzione che non nel narrare gli accadimenti della vita.

Le canzoni non sono sempre frutto di un’esperienza personale.

In Italia prendiamo Battisti, che non ha mai scritto un testo nella sua vita ma sicuramente ha influenzato Mogol nella composizione dei testi. Poi Mogol ha certamente preso elementi dalla sua vita, però alla fine è diventato un tutt’uno. Credo che con Battisti abbia in comune questa caratteristica di descrivere il sentimento, la situazione, l’umore di quella canzone. C’è bisogno di un testo, perché il pubblico spesso non riesce a cogliere certi elementi, nella musica popolare sono fondamentali il testo e la musica per comunicare qualcosa, sono in un matrimonio totale e le due forze si moltiplicano se hanno uguale valore e forza.

“Io mi sono trovato in un periodo in cui esisteva solo la canzone politica, a perseguire il filone apolitico c’eravamo solo io e Baglioni”, aveva detto in un’intervista. Ho letto inoltre che la definizione di cantante romantico non le è mai piaciuta troppo.

Diciamo che forse Baglioni si può definire romantico, ma io no. Io mi definisco roccioso, perché amo il sentimento, ma non amo l’idea di essere romantico, non lo vedo adatto a me, ho una durezza, certe volte nelle canzoni aggredisco. Perché l’umore non è fatto solo di rosa, ma anche di colori violenti, cose che a volte dispiace sentire. “Violenza”, “Bella senz’anima”, sono canzoni durissime, descrivono questa mia voglia di esistere musicalmente. A doverlo dire a parole lo direi in modo diverso, ma non mi piace, amo l’allegoria del dire le cose direttamente che è più crudo e non è mio. Così le mie ansie, le mie difficoltà di vivere, trovano armonia con certi testi.

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Farà alcuni concerti celebrativi a Milano, Trieste, all’Arena di Verona, Terme di Caracalla e Lucca. L’anno prossimo saranno 50 anni da Margherita. È stato il momento di svolta della sua carriera?

Io direi che Bella senz’anima è il momento di rottura, quello in cui il pubblico mi ha capito. Margherita è forse consacrazione di ciò che avevo seminato prima. Questo fatto di godere di esistere, esserci. Io sono sempre stato dubbioso sul fare uscire questa canzone, perché usciva nel momento più politico italiano, in cui  se non parlavi di politica eri escluso. Quella canzone non aveva nulla di politico, era in un altro mondo. Quali chance di successo avrebbe potuto avere? Invece  penso sia proprio questo aspetto, questa contrapposizione totale, ad avere aiutato la canzone. Forse il pubblico era un po’ stufo di stare sempre col pugno alzato. Lì si entrava in un mondo più arioso, aperto.

Gli anni Settanta sono stati rabbiosi, era quasi fisiologico.

Certo, quel periodo di contestazione è stato giusto, dopo il ’68 le nuove generazioni avevano bisogno di affermare di esserci, dovevano concretizzare la propria vita. Ma dopo alcuni anni avevano bisogno di uscire e prendere un po’ d’aria: secondo me Margherita l’ha data, la gente aveva bisogno un po’ di volare.

La sua carriera è stata anche una questione di svolte, scelte. A metà degli anni Novanta lei mette in pausa il suo percorso musicale da solista per andare verso altre direzioni creative. Era sazio o c’erano altre motivazioni?

Ma io ho sempre provato nella mia carriera a percorrere strade diverse. Diciamo che dopo il periodo di Luberti, di grandi successi, non mi andava di rimanere legato solo a quel contesto sempre triste, arrabbiato. Ho dovuto prendere una decisione e andare altrove. Ho trovato la collaborazione con Mogol e sono uscite altre canzoni bellissime. Quella scelta è arrivata perché nel frattempo ero andato a vivere per 4 anni a Miami, dove c’era tutto il mercato sudamericano e io lì sono molto conosciuto, volevo riprendere contatti. Sono stato lì, ho seminato, ho fatto un disco in cui c’era Se stiamo insieme, ma poi ho avuto voglia di tornare in Europa, per questa cultura che spesso, in certi posti d’America, manca totalmente. Mi trovavo un po’ spaesato, avevo bisogno di tornare alle nostre qualità, i nostro difetti.

Con “Se stiamo insieme” vince Sanremo a mani basse. Cosa la convinse a partecipare?

Non spinsi io per tornare a Sanremo, perché Sanremo non è fatto per me, non amo i concorsi. Non scordiamo che noi cantautori, quando siamo arrivati negli anni Settanta, abbiamo praticamente annullato Sanremo, per diversi anni Sanremo in televisione nemmeno c’era, le classifiche dicevano il contrario del festival. Poi nel frattempo Sanremo è cambiato, ha preso altre strade e ho pensato fosse il tempo di lanciarsi. Ho sempre detto che non mi sarei mai più presentato, perché il concorso non è per me, l’ho detto esattamente nel giorno in cui ho vinto e l’hanno presa male, come intendessi che non amo Sanremo.

E invece cosa pensa di Sanremo? 

Sanremo è importantissimo per gli artisti, ma ha anche un grande difetto secondo me, perché monopolizza un po’ tutto e ci impedisce, in Italia, di avere un vero premio, un Grammy, un riconoscimento annuale non solo degli artisti ma anche della categoria. Se non ce l’abbiamo è per colpa di Sanremo, ogni volta che lo dico mi rispondono che c’è già il Festival che però non è la stessa cosa. Monopolizza così tanto da assorbire anche le espressioni musicali più svariate. I Maneskin non sono certo un’espressione sanremese, ma io apprezzo molto il loro approccio, che però fa capire che se oggi non passi dal filtro Sanremo, hai molta difficoltà a trovare un posto nella musica. Io amo l’underground, perché è da lì che inizia il futuro, all’inizio è dura ma io amo quella proposta violenta, però con Sanremo siamo tutti un po’ repressi perché anche l’underground, per esistere, deve passare da lì. Quanto a me, Sanremo non mi ha cambiato molto la vita, c’è sempre bisogno di riconoscimenti.

Cosa le ha cambiato la vita?

Notre Dame de Paris. È un’altra carriera, parallela a quella del cantante.

In Notre Dame ci è inciampato, oppure è un’operazione nata espressamente?

È stata una proposta di Luc Plamondon. All’inizio a me faceva paura, ma io avevo messo da parte una serie di canzoni che non volevo essere io ad interpretare. Le faccio sentire a lui, erano 10-15 temi già pronti, che sono poi diventati colonne di Notre Dame. Il tempo delle cattedrali, Belle, erano già tutte lì e su quelle Luc ha scritto tutto.

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Avete trovato subito la strada spianata?

Assolutamente no. È un prodotto d’autore, all’inizio non c’era interesse per quel tipo di spettacolo, c’era una difficoltà enorme a trovare un produttore disponibile. La persona che aveva i mezzi economici per farlo inizialmente non voleva venire. L’ho chiamato, quasi obbligato, e lui mi ha detto “vengo per rispetto, ma non intendo produrlo”. Ho cantato tutta l’opera dall’inizio alla fine, lui si è alzato e uscendo dalla sala ci ha detto che sarebbe andato a prenotare il Palais de Congres. Quello che mi fa piacere è che Notre Dame de Paris non nasca da qualcosa di costruito, c’era un bisogno di costruire l’opera. La prima critica che ho avuto in Italia è stata “ma questo sei te”.

In effetti ha un timbro che lega molto l’opera a lei.

Ha una maniera di vedere e di pensare che mi rispecchia, sono io completamente. Ma doveva essere così, non dovevo fare qualcos’altro. Solitamente quando si chiede un’opera popolare si va altrove, si va nella lirica, ma non avrebbe avuto senso. L’impronta mia si sente dall’inizio alla fine.

Da marzo 2026 tornerà. Ci saranno novità?

Si parla di ritorno, ma Notre Dame de Paris non si è mai fermato. È andato in Russia, ora a Taiwan, in Cina, è andato in Corea, ma non è stato mai cambiato, mi sono sempre imposto di non farlo. Perché quando qualcosa riesce così, è come si trattasse di un miracolo. Un equilibrio tra me e il paroliere, poi il regista, il ballo, un equilibrio tra gli elementi, breaker e acrobati. È nato qualcosa, una specie di castello di carta che non bisognava toccare, a rischio di distruggere il tutto.

C’è una parentesi gigantesca della sua musica legata al cinema. Canzoni che si sono incastrate perfettamente nei meccanismi narrativi, a volte anche plasmate da alcune scene. La prima alla quale penso è Celeste Nostalgia, resa iconica dal finale di Sapore di Mare dei Vanzina. Sembra scritta apposta, le piace dia questa sensazione?

Mi piace molto che le mie canzoni vivano in altri modi oltre me, devono avere altre connotazioni. È bellissimo che questo accada, in Francia è successo lo stesso con un film di Patrice Leconte, che ha avuto un grande successo. Amo la vita delle canzoni, non devono rimanere in uno stagno, una teca, devono uscir fuori. Mi piace quando Laura Pausini fa Io Canto, quando Rino Gaetano riprende le mie canzoni, Mina, Fiorella Mannoia. Vuol dire che la canzone viaggia e deve continuare a viaggiare. Pensiamo a Era già tutto previsto, che dopo tanti anni riemerge così, adesso, grazie a un film.

È diventata virale grazie a Parthenope, pur non essendo una hit della prima pagina del suo canzoniere.

Non era una hit ma è sempre stata una canzone da me amata e proposta nei concerti. Non era mai stata un simbolo e questa rifioritura la trovo bellissima.

Con Paolo Sorrentino vi siete parlati?

Non abbiamo mai parlato a lungo ma ci siamo detti due cose rapide, lui mi ha annunciato che avrebbe voluto usare la canzone e l’ho trovato molto interessante. Sono spesso cose che arrivano da fuori, non propongo io.

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E penso a Toy Story. Su quelle canzoni tradotte in italiano avviene qualcosa di straordinario.

Non ho lavorato io alla traduzione, c’era una persona specializzata nel campo Disney, ma sono stato chiamato per dare un’impronta, che non rendesse anonima la versione italiana.

Pur rientrando nella categoria di film per bambini, quelle canzoni parlano di depressione, accettazione di sé, emarginazione. Non sono canzoni minori?

Per me non ci sono canzoni minori. Naturalmente ci sono cose che emergono di più, ma in tutti i dischi fatti ho realizzato canzoni non destinate ad essere dei singoli, ma che contenevano comunque qualcosa. Un autore di canzone è un tutto, anche con le cose minori.

Poi su Toy Story si è creata questa connessione con Frizzi e la rilevanza emotiva per la sua scomparsa.

Esatto. In ogni caso ho sempre pensato che se dovessi fare una canzone non mia, la dovrei rubare.

A proposito di canzoni “rubate”, per dirla con un’esagerazione. Su A Mano a Mano in Italia c’è stato un equivoco, per anni è stata una canzone di Rino Gaetano.

Certo e lo è ancora per molti giovani. Addirittura, spesso, quando si parla di Rino Gaetano si parla di A mano a mano, nonostante abbia tante altre canzoni.

Nasce tutto da una serie di concerti fatti insieme, in cui cantavate uno le canzoni dell’altro. Eppure la sua originale e quella di Gaetano sono diversissime.

Ma perché no? Preferisco questo a una copiatura, preferisco un rovesciamento totale e qualcosa di diverso.

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C’è un video in cui lei esegue Margherita in uno dei tanti concerti. Le persone applaudono e lei, finita la canzone, in tono confidenziale, guarda il pubblico  e dice “la rifacciamo?”. E la rifà, tutta. Non ci si stanca mai di rifarle?

Quando la rifai col pubblico fai anche piacere al pubblico. Ma io vado più nel profondo, ogni volta che faccio un concerto per me è una possibilità di riscoprire un pezzo, rivederlo in altro modo. Non potrò mai cantarla come 40 anni fa, devo vivere il mio tempo con la canzone, cresco con lei, il senso è uguale, ma sono io oggi a cantarla diversamente.

E quindi “suonala ancora, Riccardo”. O Richard, se vogliamo.

Sono ancora quello che sono e tale resterò, anche perché non saprei andare altrove.

In fondo si sente anche un mestierante?

No, mestierante no. Sono un artista, che è diverso dalla star. Star si può diventare, si può eleggere, ma l’artista è tale, dalla nascita alla morte. Non va in pensione, deve esprimersi fino alla fine, finché può. È una dannazione e una benedizione.

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