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Giorgieness, nome d’arte di Giorgia D’Eraclea, ha pubblicato lo scorso 1 novembre il suo quarto album in studio: Giorgieness e i cuori infranti. Nell’intervista racconta l’origine del titolo, descrivendo tutto il processo, anche terapeutico, con cui è arrivato il nuovo disco.

Giorgieness, foto di Le Scapigliate

Giorgieness e i cuori infranti è il nuovo disco, il quarto in studio, della cantautrice Giorgia D’Eraclea. Un progetto pubblicato lo scorso 1° novembre e che sembra tracciare un nuovo percorso, anche musicale, nella carriera della cantante. Un album in cui viene affrontato il tema della salute mentale, ma anche del femminismo con l’outro dal titolo Non una di meno: “È una canzone che parla anche agli alleati, a quelli che vengono alle manifestazioni. Non conta solo essere lì, ma anche comportarsi in una certa maniera. Non si parla solo di violenza fisica, delle estremità di questo discorso, ma anche tante piccole cose che una donna vive nel quotidiano, ancorata ancora alla mascolinità classica“. Nell’intervista racconta anche la nascita della rubrica posta del cuore che ha dato il titolo al progetto, ma anche la sofferenza vissuta con l’ultimo disco: “Sento che quest’album è arrivato dalla scottatura del precedente: non riesco ad ascoltarlo, non riesco a riconoscere la mia voce. Non c’ero io al centro di quell’album“. Nel frattempo, il prossimo 19 dicembre suonerà al Magnolia, mentre il 20 ritorna a Torino al CAP10100. Qui l’intervista.

Quando nasce Giorgieness e i cuori infranti?

Ci sono diversi momenti in cui ho avuto chiaro che alcuni passaggi, come aver compiuto 30 anni, sarebbero finiti sicuramente in un disco. A quel punto mi son promessa che avrei dovuto produrre un disco fruibile su più livelli, che per quanto fosse divertente, raccontasse anche il mio lato profondo che fa parte di me.

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Un disco rivolto all’esercito dei cuori infranti: chi sono?

C’è stato un momento in cui stavo perdendo le motivazioni dal punto di vista musicale, forse perché non ero in tour. Due anni fa ho aperto questa chat, una rubrica con il mio pubblico, come una opsta del cuore su Instagram. Nel tempo si è popolata, arrivando anche a 400 persone. Ecco, sono loro.

Hai mai incontrato qualcuno di questa chat?

Mi è capitato nelle vacanze natalizie, quando dopo esser andata in Valtellina, stavo scendendo a Lecco e dovevo aspettare un’ora per lo sciopero dei treni. Ho scritto sulla chat se ci fosse qualcuno nelle vicinanze e una ragazza mi ha raggiunto. Siamo andate a bere una birra insieme, anche perché credo che sia un po’ assurdo avere un atteggiamento da diva, soprattutto per il mio bacino d’utenza. Vorrei mantenere un rapporto di vicinanza con il pubblico, anche perché faccio una vita normale anche io. Vivo a Torino, faccio le mie cose e mi devi trascinare per uscire fuori di casa. Mi rendo conto che questo è quello che volevo, e per questo il titolo dell’album ha una definizione corale. Se ti senti come noi, puoi venire dalla nostra parte che abbiamo i biscottini a forma di cuore.

In cosa pensi possa esser cambiato il tuo approccio alla musica con quest’album?

Sicuramente la sensibilità a ciò che mi accade intorno. Per esempio, in questo momento storico, mi trovo in difficoltà a promuovere la mia musica. Ho scelto che non voglio lavorare per slogan, non sono capace. Ho cercato di inserire nel disco temi che per me sono importantissimi, come il femminismo, come i diritti umani. Cerco di non farlo mai dalla posizione di qualcuno che ti deve insegnare qualcosa, ma soprattutto dalla posizione di qualcuno che magari ti può far venire un dubbio.

E canzoni come Dicono di me?

Nascono invece da qualcosa che mi ha fatto soffrire per tantissimo tempo. Io mi sono sempre sentita troppo bionda per l’ambiente indie e troppo povera a livello di produzioni. Mi rendo conto che oggi, arrivo più facilmente al pubblico di Laura Pausini piuttosto che a quello di Paolo Benvegnù. Lo dico avendo creduto tantissimo nell’indie ed aver sofferto per la morte della scena con cui io ho cominciato, del 2011. Diciamo che mi sono sempre sentita un po’ fuori luogo perché non presa abbastanza sul serio da una parte e chiaramente un pesce piccolissimo dall’altra parte. Però quei giudizi mi sono pesati tanto perché io sono esplosiva, spontanea, caciarona, faccio casino, occupo spazio. Però allo stesso tempo, nonostante parli tanto, le persone che mi sono vicine sanno che sono esattamente quella.

C’è stata qualche commento che ha pesato di più?

Ce ne sono stati diversi. Anni fa, una cantautrice mi ha definita come la nostra “Federica Panicucci”. Con tutti il rispetto per lei, ma sono una cantante che lavora tanto alla composizione e alla produzione dei propri brani. Leggo e mi informo tanto, e posso parlare di dialetto come di geopolitica. Mi ha creato una grande insicurezza, anche a livello comunicativo. Io avevo molta paura della mia fisicità, di tantissime cose, perché appunto mi sentivo sbagliata.

Cosa ti ha aiutato in quel momento?

Mi sono ricordata di avere amici e che sono quasi tutti fuori dall’ambiente musicale. E per me va bene così, anche perché mi sono sempre sentita fuori luogo nelle occasioni di gala della musica. Si può vivere anche senza cavalcare un’onda sociale che magari alcune volte è semplicemente un’opportunità di lavoro.

In Mamma canti: “Voglio essere il centro del mondo”.

Mi ricordo, da bambina, di aver abbandonato per strada una delle mie più grande passioni che era il teatro: ero vittima della sindrome dell’impostore. Poi vengo da un posto molto piccolo, dove non ho avuto vita facile fino alle superiori.

Perché?

All’epoca essere figli di separati in Italia di persone nel Sud, insomma, non aiutava molto. Mia madre poi non aveva tempo di fare gli incontri con le altre mamme, diciamo non ero molto integrata. Amavo già intrattenere le altre persone ma i bambini alle elementari non hanno fatto delle cose bellissime. Mi ha fatto soffrire tanto, e ci sono ancora strascichi tutt’ora.

In che senso?

Io sono una musicista che non dice di essere una musicista. Io ho un’amica che quando usciamo mi presenta ad altre persone e racconta agli altri che ho cantato al Concertone del Primo Maggio. Mi imbarazza molto e ho un grosso problema a rapportarmi con questa cosa.

In Eclissi invece racconti della gente che ti ha calpestato in questi anni, traducendo un senso di forte sofferenza. 

Credo sia nato tutto dal fatto che abito in una città che non sento mia, e per la prima volta, avevo avuto problemi a farmi degli amici. Molte volte la psicologa mi ricorda che non sono sola, ho solo amici distanti. Per esempio, sono ritornata da Roma dove lì sento di avere una famiglia. Credo che questa profonda solitudine mi abbia portato a scrivere il brano in un momento di depressione profonda. C’era un terreno fertile per raccontare quel momento, che arrivava anche dopo due cambi di casa negli ultimi tre anni.

Cos’altro racconta Eclissi?

Sicuramente ho imparato che due persone, il sole e la luna, in realtà non si incontrano non per mancanza di voglia. C’è proprio l’impossibilità di stare assieme. La vedo come una sorella maggiore per Ballerò. Quando scrivi delle canzoni e trovi dei collegamenti, riesci a riconoscere anche quanto sei maturata in tutto questo processo. E poi Eclissi è uscita in maniera folle, non era un periodo di release e l’album era veramente lontano. È uscita semplicemente perché era il compleanno della persona di cui parlavo. Adesso lo sanno.

E infine arriva la consapevolezza con Non Una di Meno, che chiude il disco.

È una canzone che parla anche agli alleati, a quelli che vengono alle manifestazioni. Non conta solo essere lì, ma anche comportarsi in una certa maniera. Non si parla solo di violenza fisica, delle estremità di questo discorso, ma anche tante piccole cose che una donna vive nel quotidiano, ancorata ancora alla mascolinità classica. Soprattutto la mia generazione non si aspettava di arrivare così ai 30 e adesso cambiano anche le prospettive.

Dal punto di vista relazionale?

Ma non solo. In quest’aspetto, a 20 anni mi andava “bene” un eterno tiro e molla. Adesso non mi sta più bene la frase “non voglio niente di serio”. Comunque il brano racconta esperienze vere, raccolte durante una manifestazione.

E il bambino cattivo?

È stato un momento in cui ho dovuto convincere gli altri delle parole che avrei utilizzato. Oltre al brano, non ho più voglia di essere la mamma di nessuno, di capire, di ascoltare. Perché non è così che funziona la relazione e quindi alla fine è rimasto un bambino cattivo, anche perché poi è un uomo immaturo. E poi credo di non aver scritto mai nulla di così “cattivo” come bridge, forse una delle mie parti preferite dell’album.

Il tema della salute mentale è ricorrente nel disco: c’è un aspetto su cui pensi di avere una maggiore consapevolezza rispetto al passato?

Voler mettere delle fondamenta, almeno nell’ultimo anno e mezzo. Con quest’album ho provato a dire che non puoi rimanere sempre nei tuoi traumi: non possono diventare una scusa per rimanere immobili. Ho avuto diverse diagnosi nella mia vita: da alcune sono guarite, con altre convivrò. L’artista per me non deve soffrire, deve vivere le proprie emozioni, deve imparare a farlo. Sento che quest’album è arrivato dalla scottatura del precedente: non riesco ad ascoltarlo, non riesco a riconoscere la mia voce. Non c’ero io al centro di quell’album.

Come pensi di aver ripreso il tuo habitat?

Il mio psicologo, a un certo punto mi ha proprio detto: tu devi tornare a scrivere le canzoni perché ti piace scrivere canzoni e non devi pensare a nient’altro. Non puoi essere, mentre scrivi, anche il tuo manager, il tuo discografico, il tuo produttore. Devi essere una persona che si mette sul divano a scrivere canzoni e infatti sono nate quasi tutte così. Nonostante abbia una casa e una postazione recording che ho pure pagato un sacco di soldi. Ho rimesso tutto sul letto, la scheda audio, le chitarre, ho dormito nei cavi. Non voglio mai più credere a qualcuno che mi dice che senza di lui o senza di lei io non avrei fatto nulla nella vita.

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