Questione di restanza
Anche per questo a Castelvetrano a metà settembre – con il sostegno di Pasta Felicetti e della cantina Gravner – si è tenuto il talk “Un Paese ci vuole”, in cui ricercatiri, esperti e chef sono partiti dal testo di Cesare Pavese per discutere dei possibili paradigmi alternativi di sviluppo agricolo e del concetto di restanza; per citare Vito Teti che per primo l’ha teorizzata: «Al diritto a migrare corrisponde il diritto a restare, edificando un altro senso dei luoghi e di se stessi. Restanza significa sentirsi ancorati e insieme spaesati in un luogo da proteggere e nel contempo da rigenerare radicalmente».
«Quando, nonostante il raccolto fosse andato per molta parte perso a causa del clima, abbiamo deciso di pagare lo stesso i produttori del farro con cui produciamo uno dei nostri tipi di pasta – ha raccontato Riccardo Felicetti, ad di Pasta Felicetti – siamo stati costretti ad alzare il prezzo finale del prodotto e molti clienti ci hanno detto che eravamo pazzi e ci hanno lasciato. Ma negli anni successivi abbiamo recuperato tutto, anche grazie all’ottimo lavoro delle aziende agricole che non si sono sentite abbandonate. Quando a un viticoltore si chiede di una certa annata, si ricorda la singola grandinata, se ha nevicato o no ecc, invece a chi coltiva grano, per restare nel nostro campo, si ricorda spesso solo quanto glielo hanno pagato. Forse è una esagerazione e una provocazione la mia, ma dà l’idea di quanto distacco si stia creando tra chi coltiva la terra e le dinamiche del mercato da cui dipende e che non riesce per nulla a determinare».
«C’è un problema di linguaggio e di passaggio generazionale – ha detto invece Mateja Gravner – non si può pensare che tutto rimanga sempre immutato, bisogna avere il coraggio di cambiare ma anche di saper mediare tra i valori della tradizione e dell’innovazione».
Business di nicchia e nuovi modelli
L’investimento iniziale su Incuso, poco più di dieci anni fa, fu di 4mila euro e ora il fatturato (compresi capperi e pomodori) è di 433mila euro. Anche se la produzione di olio quest’anno è raddoppiata a 200 quintali (senza dimenticare che il 30% del business è rappresentato dalle olive “da aperitivo”), Incuso rimane comunque una realtà di nicchia che vende (a prezzi ben più alti della media) per la quasi totalità ai ristoratori, che nel progetto di Bonsignore hanno il compito di essere ambasciatori della visione innovativa che sta dietro il prodotto.
Non si rischia di cadere nella stessa trappola della “parcellizzazione” che causa l’abbandono dei campi e soprattutto che i risultati del progetto rimangano accessibili solo ad una elite che si può permettere di pagare di più? «L’importante è avviare la rivoluzione di un cambio di modello, io da solo non ho la forza di farlo, ma spero che si generi un effetto imitazione. E poi deve crescere la cultura dell’olio, si può usare un olio da 13 euro al litro per cucinare e uno da 25 per condire a crudo. Deve succedere quello che è successo per il vino». Il Mozzafiato di Incuso, topo di gamma, costa 80 euro al litro ed è praticamente tutto venduto già prima di essere prodotto.