Storie Web martedì, Marzo 25
Notiziario

Pane e sensori. La schiscetta del futuro per la pausa pranzo passa da questa doppia combinazione. Una vaschetta di protezione del cibo da asporto tecnologicamente avanzata e a basso impatto ambientale grazie a un sensore di gas generico. Si tratta di componenti analogici e digitali integrati per un’esperienza di consumo aumentata con informazioni supplementari come la temperatura nell’ambiente protettivo. Oggi tra Milano e Bergamo c’è un’azienda di medie dimensioni che sta innestando in questi involucri dispositivi evoluti che monitorano lo stato di conservazione del prodotto. Chip che integrano intelligenza artificiale e restituiscono informazioni al consumatore. Ma le soluzioni di machine learning si innestano anche negli elettrodomestici di uso quotidiano. Dalla chiusura dell’oblò della lavatrice alla manopola del frigorifero. «Da noi c’è sempre stata una forte spinta all’innovazione tecnologica e ora stiamo lavorando per integrare l’Ai nelle varie componenti. La sfida è inserire una parte di transizione digitale dal prodotto fisico al servizio», afferma Alessandro Mansutti, head of innovation di Rold, realtà che da più di sessant’anni produce componentistica per il mercato del bianco con un fatturato di 46 milioni di euro, 229 addetti e un export che all’80% abbraccia tutti i produttori di elettrodomestici nel mondo.

Sfida ambientale e digitale

Un doppio registro che tiene a bordo transizione digitale e ambientale. Non basta innovare. Perché vanno abbattuti i costi, ripensando in modo integrato i prodotti tra tech e green. È quanto racconta la terza edizione dell’indagine presentata in anteprima sul Sole 24 Ore sui chief innovation officer e sulle loro declinazioni tra digitale e sostenibilità promossa dall’Institute for Transformative Innovation Research (Itir), centro di ricerca interdipartimentale dell’Università di Pavia.

Età media in aumento e gender gap

La ricerca quali-quantitativa ha coinvolto 563 profili sempre più ibridi a presidio dei diversi ambiti. Si tratta dello studio più corposo al mondo sul ruolo della transizione digitale e sostenibile e quindi sui responsabili dell’innovazione in azienda. A seguire c’è quello dell’Università di Harvard, che ha mappato le realtà Fortune 500. Un ritratto di come le organizzazioni stiano ripensando – anche se con difficoltà – il loro posizionamento strategico. Numeri in chiaroscuro: l’età media aumenta – oggi gli over 45 sono il 64% del totale – ma il 55% non occupano posizioni manageriali alte e operano con risorse limitate. Basti pensare che soltanto poco più di un quarto del campione (26%) dispone di una squadra dedicata con oltre 30 collaboratori. Questo crea una situazione polarizzata: alcune figure sono strategicamente posizionate per guidare cambiamenti significativi, mentre altre non hanno l’autorità o il supporto necessario per farlo. La controprova? Negli ultimi anni, pur con l’aumento delle risorse per l’innovazione, è calata la percentuale di chief innovation officer che rispondono al ceo, passando dal 72% di sei anni fa al 55% dei giorni nostri. E poi è ancora evidente il gender gap: le donne sono al 14% del totale. Ma c’è dell’altro. Ben tre manager su quattro faticano a generare cambiamenti trasformativi passando dalla cultura aziendale ai modelli di business. «Il vero impatto si realizza quando vi è un’evoluzione della cultura e delle innovazioni dirompenti nel modo di fare business: una trasformazione pervasiva in cui il “bruco diventa farfalla”. Le grandi aziende hanno più risorse, le piccole dispongono di maggiore agilità, ma i nostri dati mostrano come la chiave non sia la dimensione d’impresa, bensì la visione strategica e una comprensione olistica dell’innovazione. Ciò che conta è avere idee chiare nel credere che sia possibile generare profitto creando simultaneamente valore economico e sociale», afferma Stefano Denicolai, professore di innovation management all’università di Pavia e presidente dell’Itir.

Denicolai (Univ. Pavia): «Scarsa cultura del dato»

Emerge poi una contraddizione: ai primi posti come aree di interesse c’è la necessità di una strategia, ma soltanto all’ultimo posto si colloca l’adozione di tecniche di estrazione dei dati. «La trasformazione digitale è più avanzata di quanto si creda, anche in Italia. Nell’industria manifatturiera sono ormai diffuse fabbriche 4.0 ricche di sensori, connesse al cloud e capaci di raccogliere milioni di dati. Tuttavia, salvo quando l’azienda nasce data-driven, la strategia spesso evolve rimanendo ancorata a visioni tradizionali del business, con difficoltà nella capacità di trasformare i dati in valore tangibile, ossia più ricavi o meno costi. Un paradosso che deriva dalla scarsa cultura del dato, dimenticato lungo il percorso di digitalizzazione», precisa Denicolai.

È il rischio di azioni frammentate e poco efficaci che procedono in ordine sparso senza un piano strutturato. Tutte le aziende hanno una strategia di business, ma raramente si investono risorse nello sviluppo di una vera e propria strategia di innovazione», conclude Denicolai. Il discrimine tra successo e fallimento passa dalle collaborazioni esterne, trasversali, pervasive all’organizzazione. Così i modelli aziendali devono evolvere necessariamente in ecosistemi plurali. Metterci la testa, prima della tecnologia.

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