Dal mancato taglio delle accise al fallimento del progetto dei centri in Albania, dalla cancellazione delle liste d’attesa nella sanità alla ‘finta’ tassa sugli extraprofitti delle banche: ecco tutte le promesse mancate del governo Meloni nel 2024.
Di Annalisa Cangemi, Giulia Casula e Francesca Moriero
La manovra 2025 certifica ancora una volta il tradimento del patto che la premier Meloni ha stretto con i cittadini. Il 2024 sta per chiudersi, e quest’anno è lunga la lista di promesse fatte dall’esecutivo e poi non mantenute. Misure annunciate, e in alcuni casi contenute anche nel programma di governo, e poi saltate dalla legge di Bilancio e dai provvedimenti messi a punto dalla maggioranza: dal taglio delle accise sui carburanti, alle tasse sugli extraprofitti, poi trasformate in un semplice prestito chiesto agli istituti bancari. Dalle pensioni minime a 1000 euro – che il ministro Tajani si era impegnato a introdurre già da gennaio 2025 – ai centri in Albania, pensati in origine per ospitare addirittura 3mila migranti al mese, per un totale di 36mila persone l’anno, e che sono oggi del tutto inutilizzati. E si potrebbe citare ancora il Ponte sullo Stretto di Messina, i cui cantieri avrebbero dovuto partire svariate volte nel 2024, secondo il cronoprogramma di Salvini, rimasto solo un’opera sulla carta. Vediamo su cosa la presidente del Consiglio non ha mantenuto la parola quest’anno, e quali sono le promesse irrealizzate.
“Irpef al 33% fino a 60mila euro”: la beffa sul taglio delle tasse per i ceti medi
Una delle priorità del governo per il 2025 saranno i ceti medi. L’aveva ribadito il viceministro dell’Economia Maurizio Leo e l’aveva sostenuto a gran voce anche Giorgia Meloni, illustrando la riforma fiscale attuata in manovra. A tal proposito la premier aveva detto di voler “abbassare le tasse a tutti, partendo da chi ha più bisogno e poi arrivando anche al ceto medio”. Come? Intervenendo sulle aliquote Irpef, in particolare sulla seconda fascia, ovvero quella di chi guadagna tra i 28mila e i 50mila euro e che attualmente paga il 35%.
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Dalla maggioranza – soprattutto dagli azzurri – più volte si era detto di essere a lavoro per ridurre l’aliquota di due punti e addirittura di estendere il secondo scaglione ai redditi fino a 60mila euro. “Se il concordato preventivo darà buoni risultati – aveva detto Tajani – “porteremo l’Irpef al 33%”, era la promessa.
Peccato che i soldi per finanziare la misura non ci sono e il taglio è slittato così a data da destinarsi. Quindi il modello che la legge di bilancio ha reso strutturale per il 2025 sarà lo stesso approvato lo scorso anno (23% fino a 28mila euro; 35% tra 28mila e 50mila e 43% dai 50mila in su).
Non solo, a rimetterci il prossimo anno potrebbe essere proprio una parte di quel ceto medio caro al governo. Questo perché alla rimodulazione dell’Irpef si affianca anche il nuovo taglio del cuneo fiscale, che prevede per i redditi superiori ai 32mila euro una detrazione decrescente (che si azzera per chi raggiunge i 40mila euro). Con il risultato, secondo le stime dell’Ufficio parlamentare di bilancio, che chi sta tra i 32mila e 40mila euro potrebbe arrivare a dover pagare un’aliquota marginale del 56% una volta superata una certa soglia di guadagno
Rimandate le pensioni minime a 1000 euro e il superamento della legge Fornero
L’obiettivo di superare la legge Fornero, uno dei punti del programma del governo Meloni da portare a termine entro la fine della legislatura, non è stato centrato neanche questa volta. Anche nel 2024, così come avvenuto l’anno scorso, la riforma organica del sistema pensionistico è saltata: resta quindi in vigore la legge varata nel 2011, che prevede che la pensione di vecchiaia scatti a 67 anni di età, con almeno 20 anni di contributi. Nel testo della manovra 2025 non si registrano particolari novità: si confermano Quota 103 (che permette di andare in pensione con 62 anni di età e almeno 41 anni di contributi), Opzione Donna (le donne possono uscire dal lavoro con 58 anni di età, o 59 se lavoratrici autonome, e almeno 35 anni di contributi) e Ape Sociale.
Anche nel 2024, così come nel 2023, il ministro degli Esteri e leader di Forza Italia, Antonio Tajani, dopo la conferenza stampa di presentazione del Documento di Economia e Finanze (DEF) 2024, aveva annunciato che il governo avrebbe fatto il possibile per portare le pensioni minime da 614,77 euro netti a 1000 euro al mese, già dal 1 gennaio 2025. Ma le cose sono andate in tutt’altro modo, e l’aumento degli assegni minimi è stato molto più contenuto: sebbene il governo abbia previsto un aumento aggiuntivo del 2,2%, l’importo finale delle pensioni minime dovrebbe aumentare da 614,77 euro a 616,67 euro (appena 1,90 euro al mese).
Mentre per quanto riguarda il nuovo canale di pensionamento anticipato, introdotto dalla nuova legge di Bilancio, ovvero la possibilità di uscire dal lavoro a 64 anni, cumulando gli importi del fondo complementare (ma solo se si hanno già 20 anni di contributi e se si è pienamente nel contributivo), questo avrà un impatto molto limitato. Secondo la relazione tecnica della Ragioneria generale dello Stato, che accompagna il testo della manovra, la misura potrebbe riguardare inizialmente solo un centinaio di persone.
Che fine ha fatto la tassa sugli extraprofitti delle banche?
Alla fine, nemmeno quest’anno il governo Meloni ha approvato una tassa sugli extraprofitti delle banche. Dopo la giravolta dello scorso anno, nel 2024 l’ipotesi di recuperare risorse da un’imposta sui profitti guadagnati dagli istituti finanziari era ritornata sul tavolo una volta cominciati i lavori per la nuova legge di bilancio. Attorno al tema si era consumato uno scontro interno alla maggioranza, con Forza Italia nettamente contraria alla misura e la Lega pronta a “far pagare i banchieri”. Anche da Fratelli d’Italia era emersa l’apertura a ragionare su un qualche “prelievo”.
La questione pareva essersi risolta con l’intervento del ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, che in occasione della presentazione della manovra, aveva chiaramente parlato di una legge che avrebbe richiesto “sacrifici a tutti” (banche incluse).
Eppure nel ddl bilancio approvato pochi giorni fa, della più volte annunciata tassa non c’è traccia. Al suo posto, una sorta di prestito richiesto a banche e assicurazioni che consisterà in uno sconto sulle deduzioni pagate per perdite e svalutazioni sui crediti e che dovrebbe portare nelle casse dello Stato circa 6 miliardi di euro. Un intervento che Giorgia Meloni ha rivendicato recentemente, sul palco di Atreju, ma che altro non è che un anticipo di denaro da restituire agli istituti nel 2027, quando questa legislatura avrà ormai esaurito la sua corsa.
Il fallimento dei centri per migranti in Albania
Tra le promesse non mantenute dal governo, c’è quella che riguarda la gestione dell’immigrazione. Un esempio lampante è la creazione degli hotspot in territori extraeuropei. Nel mese di ottobre, l’Italia ha inaugurato due centri per migranti in Albania, Shengjin e Gjader, ma questi hanno subito incontrato problemi legali: il Tribunale di Roma ha infatti deciso di non convalidare il trattenimento delle prime persone migranti trasferite in questi centri, ritenendo che tale trattenimento fosse contrario alle normative europee. Nonostante ciò, il governo italiano ha annunciato ricorso e, il 21 ottobre, ha presentato un nuovo decreto-legge per cercare di mantenere operativi i centri in Albania.
A metà ottobre, quando si attendevano i primi migranti, erano attivi meno del 50% dei moduli: meno della metà dei 880 posti previsti nel centro di accoglienza per richiedenti asilo, meno della metà dei 144 posti previsti per il Cpr, e solo 12 dei 20 posti previsti per il penitenziario erano pronti.
L’operazione ha avuto quindi fin da subito più un impatto mediatico che pratico, visto che a Shengjin e Gjader sono stati trasferiti meno di 20 migranti dalla nave della Marina Militare Libra. Persone che sono poi state rimpatriate immediatamente in Italia, a seguito delle decisioni dei tribunali italiani che hanno respinto il trattenimento, basandosi su una sentenza della Corte di Giustizia Europea. Una sentenza che ha di fatto ristretto le possibilità di considerare un paese come “sicuro” ai fini del rimpatrio.
Sebbene gli hotspot siano rimasti per lo più vuoti e inutilizzati, i costi per i contribuenti italiani continuano a salire a causa dell’accordo stipulato con l’Albania, fortemente voluto dal governo Meloni.
Il costo complessivo per la realizzazione e per la gestione di questi centri è di circa 680 milioni di euro, suddivisi tra il 2024 e il 2028. Per il 2024 erano stati previsti costi pari a 144 milioni di euro, per il 2025 127,3 milioni e per il 2026 127,5 milioni. Alcune voci di spesa si ripetono negli anni successivi, mentre altre sono specifiche solo per il 2024. Ad esempio, le spese per il vitto e l’alloggio delle forze dell’ordine impegnate nelle strutture sono distribuite su tutti i cinque anni, così come quelle per la gestione dei centri e il noleggio delle navi. Tuttavia, per il 2024 è stata prevista una spesa una tantum di 39,2 milioni di euro per la realizzazione delle strutture per i migranti.
Ad aprile 2024, questa cifra è stata aumentata a 65 milioni di euro con un decreto-legge: 4,5 milioni per la struttura di Shengjin e 60,5 milioni per quella di Gjader. Lo stesso decreto aveva previsto inoltre l’assegnazione di altri 2,5 milioni di euro per coprire le spese di missione del personale italiano.
Quindi, a seguito di questi aumenti, la spesa complessiva, stimata 144 milioni di euro, solo per il 2024, è salita a quasi 172 milioni di euro, mentre la spesa complessiva per il quinquennio è arrivata invece quindi a circa 680 milioni di euro.
La stima delle spese attuali necessita tuttavia di una revisione al ribasso, poiché i costi sostenuti quest’anno sono stati inferiori rispetto alle previsioni, a causa del ritardo nell’apertura dei centri.
Sanità: liste d’attesa infinte, il governo introduce misure senza risorse adeguate
Nel 2023, circa 4,5 milioni di italiani, secondo i dati ISTAT, hanno rinunciato a visite mediche o accertamenti sanitari per “difficoltà economiche, lunghe liste d’attesa o difficoltà nell’accesso ai servizi”, con un aumento del 7% rispetto all’anno precedente.
Secondo il Rapporto sul benessere equo e sostenibile dell’ISTAT, sono le lunghe liste d’attesa la principale causa della rinuncia alle cure, colpendo il 7,6% della popolazione, ovvero 4,5 milioni di persone, con un incremento di 372mila unità rispetto al 2022. Questo fenomeno interessa maggiormente le donne (9% contro 6% degli uomini), il Centro-Sud Italia (8,8% contro 7,1% del Nord) e gli over 55, con il 10% della popolazione coinvolta.
Nel luglio 2024, la Camera ha approvato la legge di conversione del decreto “Liste d’attesa”. Tra le principali misure, il decreto prevede il potenziamento del ruolo del Centro Unico di Prenotazione (CUP), sia a livello regionale che infra-regionale, con l’introduzione di un sistema che permette la gestione delle prenotazioni (conferma, cancellazione o disdetta), anche da remoto, e la creazione di una piattaforma nazionale per monitorare le liste d’attesa, destinata a verificare che le regioni rispettino le priorità indicate dai medici sulle ricette. Questa piattaforma era già prevista a livello regionale dal 2019, ma non aveva avuto un grande impatto, principalmente a causa della mancanza di uniformità tra le regioni.
La novità principale ora è che i dati saranno centralizzati e gestiti dall’Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali (AGENAS), che avrà il compito di monitorare le situazioni critiche.
Secondo l’analisi effettuata da Fondazione Gimbe, se non si risponde però all’aumento della domanda di prestazioni con quello del personale disponibile e dei finanziamenti, è impossibile affrontare il problema. Le risorse stanziate non bastano, e serviranno principalmente a finanziare una detassazione sugli straordinari per incentivare gli operatori sanitari a lavorare di più. “Il decreto legge sulle liste di attesa non prevede risorse aggiuntive e potrà essere pienamente operativo solo previa approvazione di almeno sette decreti attuativi – aveva dichiarato allora Nino Cartabellotta, presidente della fondazione – con scadenze non sempre definite e tempi di attuazione che rischiano di diventare biblici”.
Il ministro della Salute, Oreste Schillaci, aveva chiesto 3-4 miliardi di euro in più per il 2025, ma il governo ha stanziato solo 1,2 miliardi lordi, che corrispondono a circa 900 milioni netti. Questo aumento non modifica significativamente il rapporto tra spesa sanitaria e PIL, che resta tra i più bassi tra i paesi occidentali, al 6,2-6,3%.
Meloni ha dimenticato il taglio delle accise sui carburanti
In un famoso video del 2019 Giorgia Meloni (prima di lei lo aveva già fatto Salvini) chiedeva l’abolizione progressiva delle accise sul carburante, facendo finta di fare rifornimento a una stazione di servizio e spiegando che su 50 euro di benzina, solo 15 andavano al benzinaio mentre la restante parte, 35 su 50, va allo Stato. Una volta a Palazzo Chigi però Meloni aveva dovuto fare i conti con la realtà e rivedere i suoi piani, riducendo prima ed eliminando poi il taglio alle accise voluto dal governo Draghi per fronteggiare i rincari dei prezzi dell’energia dopo l’invasione russa dell’Ucraina.
Eppure nel programma di Fratelli d’Italia del 2022, con cui il partito di Meloni si è presentato alle elezioni politiche, si faceva chiaramente riferimento alla “sterilizzazione delle entrate dello Stato da imposte su energia e carburanti e automatica riduzione di Iva e accise”.
Quest’anno il dibattito si è concentrato ancora sulle accise sui carburanti, visto che nel piano strutturale di bilancio, il documento che traccia il percorso di aggiustamento dei conti pubblici per i prossimi sette anni (che è stato la base della manovra) è spuntato l’allineamento tra le accise su diesel e benzina, che gravano complessivamente per il 35% e il 38% sul costo complessivo: di fatto è stata prevista una diminuzione delle accise sulla benzina e un aumento di quelle sul gasolio. Il ministro Giorgetti ha minimizzato l’intervento, spiegando che “Nella manovra 2025 non è quotata nessuna copertura e nessuna entrata a fronte di accise e catasto. Peraltro sulle accise avevamo detto che è un allineamento, quindi ci sarà una riduzione della benzina e un aumento del gasolio. La cosa non riguarderà gli autotrasportatori”.
Il ministro dell’Economia ha anche voluto sottolineare che l’aumento per chi guida una macchina a gasolio sarà minimo: solo un centesimo in più a litro. Il Codacons però ha la lanciato l’allarme, spiegando che l’incremento per il gasolio equivale a una maggiore spesa da +0,61 euro su un pieno da 50 litri, se si tiene conto anche dell’Iva applicata sulle accise. Significa in un anno un aggravio di spesa complessivo a carico dei proprietari di auto a gasolio di +245,6 milioni di euro. Quindi non solo non c’è stata l’abolizione delle accise promesso da Meloni e Salvini, ma la tassa sul diesel salirà.