Un tempo bastava vedere per credere. Ora, vedere è diventato il primo passo per essere ingannati. E la bugia non ha più bisogno di nascondersi. Si mostra in alta definizione, guarda in camera, parla con la tua voce. È l’inganno che ti somiglia. È il deepfake.
A Milano si è tenuto un convegno – ospitato da Intesa Sanpaolo – dal titolo che sembra uscito da un romanzo distopico: “Deepfake. Tra realtà e illusione. Smascherare le manipolazioni. Tutelare la verità”. Dietro, però, c’è un’indagine Ipsos – Studio Previti che racconta una verità ormai assodata: i deepfake non sono un gioco da smanettoni. Sono una minaccia concreta, culturale, economica, democratica.
Il 74% della popolazione mondiale sa che si possono fabbricare video realistici con l’intelligenza artificiale. In Italia lo sa il 71%. Eppure, il 38% non sa cosa sia davvero un deepfake, mentre solo il 41% si dichiara in grado di riconoscerlo. La verità, insomma, è sotto attacco, ma non siamo ancora attrezzati per difenderla.
Le aziende mostrano un po’ più di prontezza: 3 su 4 temono le fake news come rischio per il proprio business. E non è solo prudenza. È esperienza. «Quotidianamente ci imbattiamo in immagini create con l’intelligenza artificiale ritraenti importanti personalità del mondo dello spettacolo, del cinema, dell’economia e della politica che propinano fantomatici investimenti finanziari, miracolosi prodotti dimagranti o finti concorsi con in palio premi, traendo in inganno numerose persone», ha raccontato Stefano Longhini, Direttore Gestione Enti Collettivi, Protezione Diritto d’Autore e Contenzioso. Direzione Affari Legali Rti Spa. La lista dei volti falsificati suona come il cast di una fiction truffaldina: Maria De Filippi che consiglia miracolosi prodotti dimagranti, Paolo Del Debbio che sponsorizza investimenti fasulli, Pier Silvio Berlusconi che regala premi inesistenti. Tutto inventato, tutto convincente. Più di quanto dovrebbe.
«Le piattaforme – aggiunge Longhini – affermano di fare fatto “tutto ciò che è ragionevolmente in loro potere” per prevenire il fenomeno dell’adescamento pubblicitario, ma all’evidenza non è così perché nell’ambito dei procedimenti sta chiaramente emergendo che dispongono di tecnologie che potrebbero limitare in maniera determinante il fenomeno».