Storie Web giovedì, Giugno 5
Notiziario

In teoria, David Richardson dovrebbe essere l’uomo che guida la risposta federale americana alle catastrofi naturali. In pratica, è un ex ufficiale dei Marines con velleità artistiche, una penna controversa e una retorica da crociata. La sua nomina a capo facente funzione della Fema – l’Agenzia federale per la gestione delle emergenze – è avvenuta in un momento cruciale, a ridosso dell’inizio della stagione degli uragani. Eppure, è stato proprio in un briefing interno che Richardson ha scatenato l’indignazione di politici e osservatori, quando ha dichiarato – secondo lui per scherzo – di «non sapere che gli Stati Uniti avessero una stagione degli uragani». Ogni anno, gli uragani provocano la morte di decine di persone e generano danni economici che superano le centinaia di milioni di dollari in vari Stati americani. Con il riscaldamento globale, queste tempeste stanno diventando progressivamente più intense, frequenti e dispendiose, tanto che secondo la National Oceanic and Atmospheric Administration la stagione di quest’anno potrebbe portare fino a dieci uragani.

La dichiarazione, rilanciata da Reuters, ha scatenato l’ira dei Democratici. Chuck Schumer, leader di minoranza al Senato, ha chiesto apertamente il suo licenziamento. La deputata texana Jasmine Crockett ha commentato: «Questo è ciò che accade quando si scelgono le vibes invece delle competenze». Ma si sarebbe trattato solo di un’ironia male interpretata, hanno assicurato dal Dipartimento per la Sicurezza Interna (DHS), di cui Fema fa parte. La polemica però non è bastata a oscurare il quadro più ampio: la trasformazione ideologica e strutturale che Richardson sta imprimendo alla Fema sotto la guida del presidente Donald Trump e della segretaria del DHS Kristi Noem.

Dal campo di battaglia al disastro federale

Classe 1991, Richardson ha passato oltre vent’anni nei Marines. Ha combattuto in Iraq, Afghanistan e Africa, è stato docente di storia militare alla George Washington University e di strategia alla Scuola d’Artiglieria dell’Esercito. Ha ottenuto riconoscimenti per il valore, ma nulla nel suo curriculum lo lega alla protezione civile o alla gestione di crisi ambientali. Eppure, a gennaio 2025 è stato nominato assistant secretary per il DHS nel settore che si occupa di minacce nucleari, chimiche e biologiche. E un mese dopo, senza alcuna conferma del Senato, è diventato il numero uno – seppur ad interim – della Fema.

Il primo discorso di Richardson al personale dell’Agenzia è durato 17 minuti. Tanto gli è bastato per evocare lo spirito marziale al grido di «non ostacolatemi, vi passerò sopra». Ha promesso di portare l’ente fuori dalla «zavorra centralista di Washington» per trasformarla in una «forza reattiva snella, al servizio degli Stati». Ha anche annullato il piano strategico pluriennale, definendolo «disconnesso dalla missione», e ha promesso una nuova strategia per il periodo 2026–2030. Per poi sottolineare che «io – e solo io – parlo per la Fema», facendo alzare più di un sopracciglio tra i veterani dell’Ageniza.

Eppure, le sue priorità sembrano più orientate a ridurre la presenza federale che a migliorarne l’efficienza. In linea con la visione trumpiana (la stessa che ha portato Elon Musk alla guida del Dipartimento per l’efficienza governativa, anche se per soli quattro mesi) il ridimensionamento dell’ente è un obiettivo dichiarato. L’ex amministratore Cameron Hamilton è stato rimosso dopo aver detto che non era «nel migliore interesse degli americani eliminare Fema». Sotto Richardson, l’agenzia ha già visto centinaia di licenziamenti e tagli a programmi, come le visite porta a porta, i fondi per l’infrastruttura, la formazione e i seminari dedicati agli uragani per funzionari statali e locali.

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