Sì, credo di sì. Noi operiamo in tutto il mondo. Gli azionisti principali sono gli americani di Liberty Media. Gestiamo enormi questioni logistiche e finanziarie, sportive e regolamentari. La caratteristica che segna la cultura manageriale italiana, distinguendola da quelle nordamericane e in fondo anche da quelle francesi e tedesche, è la capacità di rispondere in maniera originale e unica ad ogni problema. I processi, le standardizzazioni e le execution sono fondamentali. Ma anche la versatilità, che significa assunzione di responsabilità continua e originalità di pensiero, è altrettanto importante. Noi italiani siamo bravi in questo.
Quale è la condizione tecno-manifatturiera italiana nella filiera aggregata e consolidata che opera intorno al Circus?
L’alto numero di scuderie che hanno sedi e laboratori in Emilia-Romagna conta molto. Ma, altrettanto importante, è l’intero sistema della componentistica italiana che opera in maniera diretta e indiretta con la Formula Uno. Questo tessuto imprenditoriale ha una densità e una qualità strategica, a mio avviso, superiori a quelle della Germania e della Francia. Ed è l’unico che può essere paragonato al sistema dell’auto da corsa che in Inghilterra si è sviluppato fra Londra, Oxford, Coventry, Silverstone. Non bisogna però accontentarsi di questa eccellenza. Perché l’eccellenza non è immutabile. Per questa ragione sarebbe utile che i policy makers italiani adottassero le forme di tax credit che ci sono per esempio in Gran Bretagna per tutta la filiera dell’auto da corsa. Una adozione che andrebbe concepita e realizzata su due versanti complementari: gli investimenti e la formazione. In Emilia-Romagna esiste una rete di università molto stimata e accreditata che opera al servizio dell’auto, con un occhio di riguardo per la formazione di tecnici e manager di livello internazionale. La mano pubblica compirebbe la giusta scelta se sostenesse sia le imprese sia gli atenei.
Lei è italiano. Il vostro quartier generale è in Inghilterra. I vostri azionisti sono americani. Operate in tutto il mondo. In Europa l’automotive è in crisi. La Formula Uno è sempre stata la dimensione più avanzata e sexy dell’automotive industry. Quale è il suo punto di vista sulla crisi dell’auto europea?
La crisi dell’auto europea è di origine regolamentare. Non è una crisi manifatturiera o innovativa. L’imposizione da parte di Bruxelles del 2035 come anno in cui smettere di produrre automobili diesel ha comportato una ferita profonda al sistema industriale continentale. Non nascondiamoci dietro ad un dito. La scelta è stata calata dall’alto. E ha tradito il principio di neutralità tecnologica. Le élite europee, nella loro forma politica e nella loro forma delle alte burocrazie, hanno scelto l’elettrico e hanno sancito la morte del diesel e delle altre alimentazioni. Sarebbe stato più corretto porre ambiziosi obiettivi di rispetto dell’ambiente e di riduzione delle emissioni, lasciando alle case automobilistiche europee la possibilità di scegliere come farlo. Il mio punto di vista, peraltro, è espresso dalla mia posizione di Ceo di una azienda e di un movimento che, dal 2014, operano con i motori ibridi, che dall’anno prossimo vedrà l’adozione di nuovi carburanti iper-sostenibili e che, nel 2030, diventerà carbon neutral, a fronte della gigantesca strutturazione logistica di un Circus che si muove in tutto il mondo, spostando migliaia di persone e di autovetture da un continente all’altro, per tutto l’anno.