Storie Web sabato, Maggio 18
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Bonus da 100 euro (che 100 euro non sono), esonero contributivo per le imprese, pene più aspre per l’abuso di appalti e somministrazione di lavoro: sono queste alcune delle misure che l’esecutivo ha previsto tra decreto PNRR e decreto Coesione, l’uno convertito l’altro abbozzato in Consiglio dei ministri alla vigilia della Festa dei lavoratori.

Anche stavolta, infatti, per la seconda volta in due anni di governo, Giorgia Meloni ha deciso di sfruttare il Primo maggio a fini di propaganda. Se l’anno scorso la data era stata utilizzata per un Consiglio dei ministri con cui si è varato il decreto lavoro (che certo non ha migliorato il benessere dei lavoratori), per quest’anno la presidente del Consiglio si è limitata a un video, con il quale si è vantata dei traguardi raggiunti. E, nel farlo, ha utilizzato anche le parole di Mattarella, non senza qualche distorsione.

Primo maggio: la festa abolita da Mussolini e strumentalizzata da Meloni

La citazione delle parole del Presidente della Repubblica, da parte di Meloni, è piuttosto furba: la leader di Fratelli d’Italia si vanta dell’aumento dell’occupazione, e dell’occupazione femminile. Sono questi i dati, aggiunge, “che sono stati salutati con soddisfazione anche dal presidente Sergio Mattarella, che voglio ringraziare per le sue parole molto importanti”.

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Peccato però che il discorso del Presidente della Repubblica fosse decisamente più complesso e che il sollievo per l’aumento dell’occupazione (europea, non solo italiana) non era che una premessa per le considerazioni successive. Leggere per credere:

È una buona notizia che siano aumentati i posti di lavoro, e anche i contratti a tempo indeterminato. Lo è anche la crescita del lavoro femminile. Naturalmente non dobbiamo dimenticare le disparità sociali e territoriali che perdurano; gli esclusi; il fenomeno dei lavori precari e sottopagati. Il basso livello retributivo di primo ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, che induce tanti di loro a recarsi all’estero a migliori condizioni.

Ancora una volta, allora, Meloni celebra il primo maggio enfatizzando non il lavoro dignitoso di tutti, su cui è fondata la Repubblica (secondo la vigente Costituzione antifascista), bensì il lavoro del suo governo, strumentalizzando la data in maniera retorica. Nel giorno della Festa dei lavoratori, ricorrenza a suo tempo abolita dal regime fascista di Mussolini, Giorgia Meloni si compiace per misure che, a ben guardare, rientrano nel solco dell’assistenzialismo conservatore, più che dell’assistenza socialdemocratica.

Il favore delle decontribuzioni e l’elemosina dei bonus

È la stessa Presidente del Consiglio a sottolineare come la misura centrale della strategia governativa sia, ancora una volta, l’esonero contributivo. Ma questa prassi, che nell’ultimo decennio ha caratterizzato l’intervento pubblico in materia occupazionale, non è un aiuto ai lavoratori, ma un favore alle imprese. Di fatto, la misura concede alle aziende un risparmio sul costo del lavoro, addossando la spesa a tutti noi: i contributi vengono infatti pagati dallo Stato, anche se a guadagnare è l’impresa. L’esonero previsto dal governo Meloni è biennale e riguarda i disoccupati al Sud, gli under 35 che non abbiano mai avuto un contratto a tempo indeterminato nel resto d’Italia e “le donne a prescindere dall’età su tutto il territorio nazionale”.

Questa strategia (che, ribadiamo, non è una novità del governo Meloni) ha già mostrato i suoi vizi, pratici e logici. Sul piano logico, a carico della spesa pubblica viene posto un costo privato, come se il valore aggiunto prodotto da una lavoratrice o da un (ex) disoccupato non finisse tra gli utili dell’impresa: è insomma un esempio lampante di privatizzazione dei profitti e socializzazione dei costi. Sul piano pratico, d’altra parte, i dati hanno dimostrato come nell’ultimo decennio la riduzione del costo contributivo a carico del datore di lavoro non si sia tradotto in un aumento dei salari, confermando che la teoria secondo cui, dando benefici alle fasce più abbienti, si finirebbe per favorire indirettamente anche le classi più povere (il cosiddetto trickle-down), sia ben lontana dalla realtà.

Ma il favore alle imprese attraverso l’esonero contributivo non è l’unica misura prevista e ce n’è una che arriva direttamente ai lavoratori, ossia il bonus 100 euro. In realtà, la cifrà è al lordo, e sarà quindi più bassa. Arriverà a gennaio 2025, è previsto solo in caso di figli a carico ed è comunque calibrato sui mesi lavorati nell’anno precedente, con il risultato di ridurre la somma per chi abbia avuto dei periodi di disoccupazione.

Al di là dei metodi di calcolo e delle strategie retoriche, il problema dei bonus (anche questi certo non esclusiva di Meloni) è ideologico: a prescindere dall’accusa di voler dare una mancetta elettorale, queste somme sono benefici semplicistici, elargizioni non troppo diverse da un’elemosina, da un favore concesso ogni tanto.

Il taglio delle misure strutturali e la criminalizzazione sindacale

Nel sistema socialdemocratico, previdenza e assistenza non sono favori, ma sono diritti. E sono due i fattori attraverso cui riuscire a garantire questi diritti: un welfare strutturato, in grado di soddisfare i bisogni preservando la dignità dei bisognosi, e uno spazio dialettico, di confronto ma anche di conflitto, per le rappresentanze dei lavoratori, in ottica di elaborazione e rivendicazione. Come e più dei suoi predecessori, il governo Meloni sta depotenziando entrambi questi fattori.

Le misure strutturali di welfare sono state tagliate. Per citarne giusto una, il reddito di cittadinanza è ormai storia passata: dai discorsi in campagna elettorale alla riforma dopo l’insediamento, il sussidio è stato prima depotenziato e poi di fatto abolito. Si è eliminata così una misura che, pur imperfetta e migliorabile, aveva il merito di porre un argine allo sfruttamento e di dare un minimo di respiro a chi ne beneficiava.

Sul piano sindacale, poi, le rappresentanze dei lavoratori non solo non vengono tenute in considerazione, ma lo sciopero, principale forma di lotta, è stato in più occasioni (illegittimamente) ridotto dal vicepresidente Matteo Salvini, attraverso la precettazione. Che lo facesse per posizionamento politico, per strategia comunicativa o per lucida convinzione, il leader della Lega ha calpestato un diritto, faticosamente conquistato dopo un ventennio di repressione fascista.

Se infatti è possibile tracciare un parallelismo tra l’estrema destra di oggi e quella di un secolo fa, un elemento di somiglianza è proprio il rapporto della classe politica con il lavoro e con i lavoratori: sfruttati a fini retorici, lasciati in condizioni di precariato e povertà, repressi in caso di dissenso o azione sindacale, saltuariamente premiati affinché siano grati al potere e non pretendano i diritti che spettano loro.

A che serve l’aumento delle sanzioni se mancano ispettori del lavoro?

Lasciando sullo sfondo il disturbante parallelismo, possiamo però notare l’attenzione del governo Meloni nella repressione degli illeciti in materia di appalto e somministrazione. Il decreto convertito in occasione del primo maggio, infatti, è stato varato dal governo due mesi prima, sull’onda emotiva e comunicativa della strage di lavoratori nel cantiere di Firenze. Le nuove regole inaspriscono le pene per reati compiuti in violazione delle norme di sicurezza sul lavoro e per gli illeciti in materia di esternalizzazioni.

Il problema, però, resta l’applicazione di queste nuove sanzioni.

Due giorni prima rispetto al crollo del cantiere e alla morte di alcuni operai che vi lavoravano, infatti, i sindacati avevano chiesto, ancora una volta, alla ministra Calderone un incontro urgente, ribadendo le preoccupazioni rispetto alla carenza di personale (e di valorizzazione) negli ispettorati del lavoro.

Alla fine del 2023, infatti, gli ispettori del lavoro avevano proclamato uno sciopero e le loro rappresentanze avevano evidenziato alla ministra i problemi di organico: i funzionari addetti ai controlli sono pochi, le nuove assunzioni non sono sufficienti e, senza rifinanziamento, si arriva a ridurre gli stipendi degli ispettori, dimezzandone il salario accessorio. Il risultato è che molti nuovi assunti, a cui sono richieste competenze senza un compenso in linea con esse, preferiscono dimettersi e trovare impieghi meglio retribuiti, gli ispettori più anziani, sulla via del pensionamento, non vengono sostituiti e i controlli vengono sacrificati per l’impossibilità materiale del personale di vigilare sull’effettivo rispetto delle regole.

Insomma, ammesso e non concesso che aumentare le sanzioni sia una buona idea e non un banale intervento di populismo penale, le nuove regole restano solo uno spot se manca un numero adeguato di ispettori e, più in generale, una modalità razionale ed efficiente di controllo.

Salario minimo e contrattazione collettiva: dall’indifferenza al dumping

C’è infine un altro tema che caratterizza in negativo il rapporto del governo Meloni con i lavoratori: il salario minimo legale e, più in generale, il problema del lavoro povero. Che la tutela del potere d’acquisto dei lavoratori non fosse una priorità di questo governo era già stato reso evidente tanto dall’affossamento della proposta di un salario minimo legale, quanto dalle parole di Giorgia Meloni alla conferenza stampa di fine anno.

Quel che è rimasto sotto traccia è però un dettaglio, che forse solo chi si occupa di diritto del lavoro ha notato nel testo originario del decreto PNRR. Nelle nuove regole sugli appalti, infatti, il governo aveva previsto che ai lavoratori della filiera fosse garantito almeno il “trattamento economico complessivo” previsto dal contratto collettivo “maggiormente applicato nel settore e per la zona“. Si tratta di una formulazione anomala, che si ritrova soltanto nella proposta di legge delega sul salario minimo. Di solito, infatti, si fa riferimento al criterio della rappresentatività sindacale, cioè si usa come parametro il “contratto collettivo applicabile stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale“. Questo criterio è stato reintrodotto in sede di conversione ed è quindi sparita la versione originale, sul contratto “maggiormente applicato”.

Ma quale sarebbe stato il rischio per i lavoratori se la norma fosse rimasta quella originaria proposta dal governo Meloni? Il dumping contrattuale si sarebbe potuto legittimare se non favorire.

Per capire la questione, che affonda le radici nella mancata attuazione dell’articolo 39 della Costituzione, basti sapere che in Italia c’è una quantità enorme di contratti collettivi. Per una stessa categoria è possibile applicare diversi contratti e non tutti questi contratti garantiscono effettivamente condizioni di lavoro dignitose.

Con il testo originale del governo, allora, si sarebbe potuti arrivare al paradosso di applicare un contratto pirata per il semplice fatto che fosse maggiormente applicato. Era questo uno scenario denunciato da diversi giuslavoristi e anche dall’Alleanza delle Cooperative, in audizione parlamentare. Ma se, almeno in questo caso, il tentativo sembra fallito, è senz’altro il caso di mantenere alta l’attenzione sul rischio che formulazioni simili siano riproposte, depotenziando ulteriormente la già fragile tutela della contrattazione collettiva, specie considerando le intenzioni della destra di riformare cassa integrazione, contratti a tempo determinato, somministrazione, dimissioni. Non per forza in favore dei lavoratori.

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Nata nel 1992 in provincia di Milano. Si è laureata in giurisprudenza con una tesi su Danilo Dolci e il diritto al lavoro, grazie alla quale ha vinto il premio Angiolino Acquisti Cultura della Pace e il premio Matteotti. Ora è assegnista di ricerca in diritto del lavoro. È autrice dei libri Potere forte. Attualità della nonviolenza (effequ, 2019) e Argomentare è diabolico. Retorica e fallacie nella comunicazione (effequ, 2022).

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