NEW DELHI – La crisi istituzionale in Corea del Sud ha fatto un nuovo salto di qualità oggi, venerdì 4 gennaio, quando l’agenzia governativa che indaga sul fallito auto-colpo di Stato dello scorso 3 dicembre ha dovuto rinunciare ad arrestare il presidente Yoon Suk Yeol. Quando i funzionari del Corruption Investigation Office for High-ranking Officials si sono presentati alla residenza ufficiale di Yoon scortati da un centinaio di agenti hanno trovato ad attenderli 200 tra militari e uomini della sicurezza presidenziale che gli hanno impedito di avvicinarsi all’edificio. Dopo uno stallo durato sei ore – a cui hanno assistito 2.700 poliziotti e un migliaio di sostenitori del presidente – investigatori e forze di sicurezza si sono ritirati, spiegando che arrestare Yoon in quelle condizioni sarebbe stato «praticamente impossibile».
Il confronto tra inquirenti e manifestanti non è stato violento, ma ha assunto connotati politici sorprendentemente sofisticati: i sostenitori di Yoon, un leader complottista e filo-americano, sventolavano bandiere a stelle e strisce e mostravano cartelli con lo stesso slogan («Stop the steal») utilizzato dai sostenitori di Donald Trump convinti che le elezioni americane del 2020 fossero state viziate da brogli.
Le motivazioni del tentato arresto
L’agenzia che indaga sulla decisione di Yoon di imporre la legge marziale ha chiesto l’arresto del presidente perché – nonostante l’impeachment votato dal Parlamento lo scorso 14 dicembre – Yoon da settimane si rifiuta di prendere parte al procedimento che lo vede accusato di tradimento e insurrezione, reati per i quali non vale l’immunità presidenziale. Yoon non lascia la sua residenza dal 12 dicembre, quando si è recato nei suoi uffici per registrare un videomessaggio alla nazione in cui – lungi dal prendere atto delle massicce proteste di piazza che ne chiedevano le dimissioni immediate – annunciava che si sarebbe battuto «fino alla fine».
Nel corso di un incontro con i giornalisti, gli investigatori hanno spiegato di non essere neppure riusciti ad avvicinarsi alla residenza, davanti alla quale hanno trovato barriere e uomini armati. Tre funzionari hanno incontrato i legali di Yoon che gli hanno comunicato di ritenere «illegale e incostituzionale» il mandato d’arresto. La tesi della difesa è che, senza il consenso di Yoon, nessuna autorità possa accedere a un luogo, come la sua residenza, dove potrebbero essere potenzialmente custoditi dei segreti militari. Secondo Park Seong-bae, un penalista, la protezione garantita al presidente dalle sue guardie del corpo non si estende ai mandati d’arresto emessi dai tribunali coreani. Non a caso le autorità hanno convocato per oggi il responsabile della sicurezza presidenziale perché sospettato di avere «illegalmente impedito l’esecuzione di un mandato d’arresto».
Le autorità hanno anche annunciato che «chiederanno con forza» al presidente ad interim Choi Sang-mok di ordinare al servizio di sicurezza di rispettare il mandato d’arresto. Choi, che fino a pochi giorni fa ricopriva gli incarichi di ministro delle Finanze e vice premier, è il secondo leader ad assumere l’interim della presidenza dopo la messa in stato d’accusa di Yoon. Prima di lui, era toccato al primo ministro Han Duck-soo. Una stagione breve la sua: dopo essersi rifiutato di ratificare la nomina di tre dei giudici che dovranno giudicare Yoon, è stato a sua volta messo in stato d’accusa da un’opposizione sempre più agguerrita e impaziente.