Storie Web mercoledì, Giugno 4
Notiziario

Mentre elegge un nuovo presidente, il Paese è più spaccato che mai: progressisti contro conservatori; ragazzi contro adulti; uomini contro donne

di Marco MasciagaDal nostro inviatoSEUL – La Penisola Coreana è spaccata in due da quasi 80 anni. Dalla fine della Guerra Fredda ne sono trascorsi più di 35. Eppure, la prospettiva di una riunificazione non solo rimane lontana, ma il morbo della divisione si è annidato così in profondità nella società del Sud che in queste ore, mentre elegge un nuovo presidente, il Paese è più spaccato che mai: progressisti contro conservatori; ragazzi contro adulti; uomini contro donne. Il tutto mentre Seul, con le sue fiorenti industrie immateriali e gli uffici delle chaebol, è sempre di più un mondo a parte rispetto a città come Ulsan e Busan. Poli industriali che, complice il protezionismo di Donald Trump, rischiano di diventare la versione locale della rust belt americana.Dopo il fallito auto-colpo di Stato dello scorso dicembre che è costato l’impeachment al presidente conservatore Yoon Suk Yeol, il candidato del Democratic Party of Korea (Dpk) Lee Jae-myung arriva al voto con la strada spianata verso la presidenza. In parte sull’onda delle proteste di piazza dello scorso dicembre; in parte perché i conservatori del Power People Party (Ppp) hanno elevato l’autosabotaggio a forma d’arte, presentandosi con un candidato debole, Kim Moon-soo, scelto dopo un processo di selezione che ha fatto emergere le spaccature in seno al partito e il disprezzo della sua classe dirigente per la democrazia interna.Dietro il quasi plebiscito che questa notte farà di Lee il prossimo presidente si annidano però divisioni profonde. Un problema – spiega Wooyeal Paik, un professore del dipartimento di Scienze politiche e Studi internazionali della Yonsei University – esacerbato dal fatto che quella coreana non è più una «polarizzazione ideologica», ma «devozionale». La personalizzazione delle rivalità spinge a guardare – e giudicare – gli avversari in termini sempre più etici e morali, anziché politici.Un approccio che sul piano domestico si traduce nel ricorso sempre più frequente alle procedure di impeachment (2004, 2016, 2025), in una tensione crescente tra legittimazione elettorale e accountability; tra la forza delle istituzioni politiche e la debolezza delle norme di convivenza tra i partiti. «Ogni volta che un presidente finisce il mandato è automatico che venga indagato, arrestato, messo alla gogna», spiega Guido Alberto Casanova, junior research fellow dell’Asia Centre dell’Ispi. «Il risultato è che per i politici la posta in gioco è così alta, non ultimo sul piano personale, che per sconfiggere l’avversario tutto diventa lecito».Nell’ultimo Democracy Index stilato dall’Economist Intelligence Unit, Seul ha perso 10 posizioni, scivolando al 32esimo posto e non raggiungendo neppure la sufficienza in materia di “cultura politica”. Segno, secondo Paik, che in una democrazia giovane «in cui gli istinti autoritari, specie a destra, non si sono ancora estinti del tutto» la battaglia per la rimozione di Yoon ha esacerbato una polarizzazione che era in crescita da anni. In politica estera, una materia che in Corea del Sud è per ovvie ragioni di importanza esistenziale, le cose non vanno meglio. Qui la partigianeria si è tradotta in accuse gravi, come tradimento e antipatriottismo, non di rado condite da espressioni come «forze filo nordcoreane», «elementi anti-Stato», «collaborazionismo filo-giapponese».Le altre smagliature della società coreana non sembrano più semplici da rammendare. Quest’anno, per la prima volta dal 2007, non ci sono donne tra i sei candidati alla presidenza. Non solo. Il Reform Party, che sotto la guida spregiudicata di Lee Jun-seok aspira a diventare il terzo partito dopo Dpk e Ppp, deve buona parte della sua popolarità all’aver catalizzato le frustrazioni di molti giovani uomini che – a dispetto del gender pay gap più ampio fra tutti i Paesi Ocse: 29,3% – si sentono discriminati rispetto alle donne. Colpa in parte dei 18 mesi di leva obbligatoria e in parte dell’importanza attribuita dalle famiglie al successo accademico, un terreno su cui dominano le ragazze.Una divisione resa più acuta da quella generazionale. «Fino a 10-20 anni fa – spiega Paik – trovare un buon lavoro dopo la laurea era facile. Oggi non più. Tre quarti dei ragazzi scelgono di fare l’università e quando escono hanno aspettative elevate. Hanno studiato molto e in un sistema iper-competitivo. Non vogliono saperne di lavorare in fabbrica o in un cantiere navale». Un quadro che per chi vive lontano da Seul è ancora più cupo. «Parlare con i giovani che escono dalle università di provincia – spiega Byong Jin Ahn, un professore della Global Academy for Future Civilization della Kyung Hee University – è sconfortante. Sono insoddisfatti, sentono di non avere futuro e non si sposano». Non a caso la Corea del Sud, dove la correlazione tra nascite e matrimoni resta fortissima, ha il tasso di fertilità più basso del pianeta. Un’altra sfida per l’uomo che, a partire da domani, dovrà ridare lustro a una delle più grandi success story del secolo asiatico.Dal nostro inviatoSEUL – La Penisola Coreana è spaccata in due da quasi 80 anni. Dalla fine della Guerra Fredda ne sono trascorsi più di 35. Eppure, la prospettiva di una riunificazione non solo rimane lontana, ma il morbo della divisione si è annidato così in profondità nella società del Sud che in queste ore, mentre elegge un nuovo presidente, il Paese è più spaccato che mai: progressisti contro conservatori; ragazzi contro adulti; uomini contro donne. Il tutto mentre Seul, con le sue fiorenti industrie immateriali e gli uffici delle chaebol, è sempre di più un mondo a parte rispetto a città come Ulsan e Busan. Poli industriali che, complice il protezionismo di Donald Trump, rischiano di diventare la versione locale della rust belt americana.Dopo il fallito auto-colpo di Stato dello scorso dicembre che è costato l’impeachment al presidente conservatore Yoon Suk Yeol, il candidato del Democratic Party of Korea (Dpk) Lee Jae-myung arriva al voto con la strada spianata verso la presidenza. In parte sull’onda delle proteste di piazza dello scorso dicembre; in parte perché i conservatori del Power People Party (Ppp) hanno elevato l’autosabotaggio a forma d’arte, presentandosi con un candidato debole, Kim Moon-soo, scelto dopo un processo di selezione che ha fatto emergere le spaccature in seno al partito e il disprezzo della sua classe dirigente per la democrazia interna.Dietro il quasi plebiscito che questa notte farà di Lee il prossimo presidente si annidano però divisioni profonde. Un problema – spiega Wooyeal Paik, un professore del dipartimento di Scienze politiche e Studi internazionali della Yonsei University – esacerbato dal fatto che quella coreana non è più una «polarizzazione ideologica», ma «devozionale». La personalizzazione delle rivalità spinge a guardare – e giudicare – gli avversari in termini sempre più etici e morali, anziché politici.Un approccio che sul piano domestico si traduce nel ricorso sempre più frequente alle procedure di impeachment (2004, 2016, 2025), in una tensione crescente tra legittimazione elettorale e accountability; tra la forza delle istituzioni politiche e la debolezza delle norme di convivenza tra i partiti. «Ogni volta che un presidente finisce il mandato è automatico che venga indagato, arrestato, messo alla gogna», spiega Guido Alberto Casanova, junior research fellow dell’Asia Centre dell’Ispi. «Il risultato è che per i politici la posta in gioco è così alta, non ultimo sul piano personale, che per sconfiggere l’avversario tutto diventa lecito».Nell’ultimo Democracy Index stilato dall’Economist Intelligence Unit, Seul ha perso 10 posizioni, scivolando al 32esimo posto e non raggiungendo neppure la sufficienza in materia di “cultura politica”. Segno, secondo Paik, che in una democrazia giovane «in cui gli istinti autoritari, specie a destra, non si sono ancora estinti del tutto» la battaglia per la rimozione di Yoon ha esacerbato una polarizzazione che era in crescita da anni. In politica estera, una materia che in Corea del Sud è per ovvie ragioni di importanza esistenziale, le cose non vanno meglio. Qui la partigianeria si è tradotta in accuse gravi, come tradimento e antipatriottismo, non di rado condite da espressioni come «forze filo nordcoreane», «elementi anti-Stato», «collaborazionismo filo-giapponese».Le altre smagliature della società coreana non sembrano più semplici da rammendare. Quest’anno, per la prima volta dal 2007, non ci sono donne tra i sei candidati alla presidenza. Non solo. Il Reform Party, che sotto la guida spregiudicata di Lee Jun-seok aspira a diventare il terzo partito dopo Dpk e Ppp, deve buona parte della sua popolarità all’aver catalizzato le frustrazioni di molti giovani uomini che – a dispetto del gender pay gap più ampio fra tutti i Paesi Ocse: 29,3% – si sentono discriminati rispetto alle donne. Colpa in parte dei 18 mesi di leva obbligatoria e in parte dell’importanza attribuita dalle famiglie al successo accademico, un terreno su cui dominano le ragazze.Una divisione resa più acuta da quella generazionale. «Fino a 10-20 anni fa – spiega Paik – trovare un buon lavoro dopo la laurea era facile. Oggi non più. Tre quarti dei ragazzi scelgono di fare l’università e quando escono hanno aspettative elevate. Hanno studiato molto e in un sistema iper-competitivo. Non vogliono saperne di lavorare in fabbrica o in un cantiere navale». Un quadro che per chi vive lontano da Seul è ancora più cupo. «Parlare con i giovani che escono dalle università di provincia – spiega Byong Jin Ahn, un professore della Global Academy for Future Civilization della Kyung Hee University – è sconfortante. Sono insoddisfatti, sentono di non avere futuro e non si sposano». Non a caso la Corea del Sud, dove la correlazione tra nascite e matrimoni resta fortissima, ha il tasso di fertilità più basso del pianeta. Un’altra sfida per l’uomo che, a partire da domani, dovrà ridare lustro a una delle più grandi success story del secolo asiatico.Dal nostro inviatoSEUL – La Penisola Coreana è spaccata in due da quasi 80 anni. Dalla fine della Guerra Fredda ne sono trascorsi più di 35. Eppure, la prospettiva di una riunificazione non solo rimane lontana, ma il morbo della divisione si è annidato così in profondità nella società del Sud che in queste ore, mentre elegge un nuovo presidente, il Paese è più spaccato che mai: progressisti contro conservatori; ragazzi contro adulti; uomini contro donne. Il tutto mentre Seul, con le sue fiorenti industrie immateriali e gli uffici delle chaebol, è sempre di più un mondo a parte rispetto a città come Ulsan e Busan. Poli industriali che, complice il protezionismo di Donald Trump, rischiano di diventare la versione locale della rust belt americana.Dopo il fallito auto-colpo di Stato dello scorso dicembre che è costato l’impeachment al presidente conservatore Yoon Suk Yeol, il candidato del Democratic Party of Korea (Dpk) Lee Jae-myung arriva al voto con la strada spianata verso la presidenza. In parte sull’onda delle proteste di piazza dello scorso dicembre; in parte perché i conservatori del Power People Party (Ppp) hanno elevato l’autosabotaggio a forma d’arte, presentandosi con un candidato debole, Kim Moon-soo, scelto dopo un processo di selezione che ha fatto emergere le spaccature in seno al partito e il disprezzo della sua classe dirigente per la democrazia interna.Dietro il quasi plebiscito che questa notte farà di Lee il prossimo presidente si annidano però divisioni profonde. Un problema – spiega Wooyeal Paik, un professore del dipartimento di Scienze politiche e Studi internazionali della Yonsei University – esacerbato dal fatto che quella coreana non è più una «polarizzazione ideologica», ma «devozionale». La personalizzazione delle rivalità spinge a guardare – e giudicare – gli avversari in termini sempre più etici e morali, anziché politici.Un approccio che sul piano domestico si traduce nel ricorso sempre più frequente alle procedure di impeachment (2004, 2016, 2025), in una tensione crescente tra legittimazione elettorale e accountability; tra la forza delle istituzioni politiche e la debolezza delle norme di convivenza tra i partiti. «Ogni volta che un presidente finisce il mandato è automatico che venga indagato, arrestato, messo alla gogna», spiega Guido Alberto Casanova, junior research fellow dell’Asia Centre dell’Ispi. «Il risultato è che per i politici la posta in gioco è così alta, non ultimo sul piano personale, che per sconfiggere l’avversario tutto diventa lecito».Nell’ultimo Democracy Index stilato dall’Economist Intelligence Unit, Seul ha perso 10 posizioni, scivolando al 32esimo posto e non raggiungendo neppure la sufficienza in materia di “cultura politica”. Segno, secondo Paik, che in una democrazia giovane «in cui gli istinti autoritari, specie a destra, non si sono ancora estinti del tutto» la battaglia per la rimozione di Yoon ha esacerbato una polarizzazione che era in crescita da anni. In politica estera, una materia che in Corea del Sud è per ovvie ragioni di importanza esistenziale, le cose non vanno meglio. Qui la partigianeria si è tradotta in accuse gravi, come tradimento e antipatriottismo, non di rado condite da espressioni come «forze filo nordcoreane», «elementi anti-Stato», «collaborazionismo filo-giapponese».Le altre smagliature della società coreana non sembrano più semplici da rammendare. Quest’anno, per la prima volta dal 2007, non ci sono donne tra i sei candidati alla presidenza. Non solo. Il Reform Party, che sotto la guida spregiudicata di Lee Jun-seok aspira a diventare il terzo partito dopo Dpk e Ppp, deve buona parte della sua popolarità all’aver catalizzato le frustrazioni di molti giovani uomini che – a dispetto del gender pay gap più ampio fra tutti i Paesi Ocse: 29,3% – si sentono discriminati rispetto alle donne. Colpa in parte dei 18 mesi di leva obbligatoria e in parte dell’importanza attribuita dalle famiglie al successo accademico, un terreno su cui dominano le ragazze.Una divisione resa più acuta da quella generazionale. «Fino a 10-20 anni fa – spiega Paik – trovare un buon lavoro dopo la laurea era facile. Oggi non più. Tre quarti dei ragazzi scelgono di fare l’università e quando escono hanno aspettative elevate. Hanno studiato molto e in un sistema iper-competitivo. Non vogliono saperne di lavorare in fabbrica o in un cantiere navale». Un quadro che per chi vive lontano da Seul è ancora più cupo. «Parlare con i giovani che escono dalle università di provincia – spiega Byong Jin Ahn, un professore della Global Academy for Future Civilization della Kyung Hee University – è sconfortante. Sono insoddisfatti, sentono di non avere futuro e non si sposano». Non a caso la Corea del Sud, dove la correlazione tra nascite e matrimoni resta fortissima, ha il tasso di fertilità più basso del pianeta. Un’altra sfida per l’uomo che, a partire da domani, dovrà ridare lustro a una delle più grandi success story del secolo asiatico.Dal nostro inviatoSEUL – La Penisola Coreana è spaccata in due da quasi 80 anni. Dalla fine della Guerra Fredda ne sono trascorsi più di 35. Eppure, la prospettiva di una riunificazione non solo rimane lontana, ma il morbo della divisione si è annidato così in profondità nella società del Sud che in queste ore, mentre elegge un nuovo presidente, il Paese è più spaccato che mai: progressisti contro conservatori; ragazzi contro adulti; uomini contro donne. Il tutto mentre Seul, con le sue fiorenti industrie immateriali e gli uffici delle chaebol, è sempre di più un mondo a parte rispetto a città come Ulsan e Busan. Poli industriali che, complice il protezionismo di Donald Trump, rischiano di diventare la versione locale della rust belt americana.Dopo il fallito auto-colpo di Stato dello scorso dicembre che è costato l’impeachment al presidente conservatore Yoon Suk Yeol, il candidato del Democratic Party of Korea (Dpk) Lee Jae-myung arriva al voto con la strada spianata verso la presidenza. In parte sull’onda delle proteste di piazza dello scorso dicembre; in parte perché i conservatori del Power People Party (Ppp) hanno elevato l’autosabotaggio a forma d’arte, presentandosi con un candidato debole, Kim Moon-soo, scelto dopo un processo di selezione che ha fatto emergere le spaccature in seno al partito e il disprezzo della sua classe dirigente per la democrazia interna.Dietro il quasi plebiscito che questa notte farà di Lee il prossimo presidente si annidano però divisioni profonde. Un problema – spiega Wooyeal Paik, un professore del dipartimento di Scienze politiche e Studi internazionali della Yonsei University – esacerbato dal fatto che quella coreana non è più una «polarizzazione ideologica», ma «devozionale». La personalizzazione delle rivalità spinge a guardare – e giudicare – gli avversari in termini sempre più etici e morali, anziché politici.Un approccio che sul piano domestico si traduce nel ricorso sempre più frequente alle procedure di impeachment (2004, 2016, 2025), in una tensione crescente tra legittimazione elettorale e accountability; tra la forza delle istituzioni politiche e la debolezza delle norme di convivenza tra i partiti. «Ogni volta che un presidente finisce il mandato è automatico che venga indagato, arrestato, messo alla gogna», spiega Guido Alberto Casanova, junior research fellow dell’Asia Centre dell’Ispi. «Il risultato è che per i politici la posta in gioco è così alta, non ultimo sul piano personale, che per sconfiggere l’avversario tutto diventa lecito».Nell’ultimo Democracy Index stilato dall’Economist Intelligence Unit, Seul ha perso 10 posizioni, scivolando al 32esimo posto e non raggiungendo neppure la sufficienza in materia di “cultura politica”. Segno, secondo Paik, che in una democrazia giovane «in cui gli istinti autoritari, specie a destra, non si sono ancora estinti del tutto» la battaglia per la rimozione di Yoon ha esacerbato una polarizzazione che era in crescita da anni. In politica estera, una materia che in Corea del Sud è per ovvie ragioni di importanza esistenziale, le cose non vanno meglio. Qui la partigianeria si è tradotta in accuse gravi, come tradimento e antipatriottismo, non di rado condite da espressioni come «forze filo nordcoreane», «elementi anti-Stato», «collaborazionismo filo-giapponese».Le altre smagliature della società coreana non sembrano più semplici da rammendare. Quest’anno, per la prima volta dal 2007, non ci sono donne tra i sei candidati alla presidenza. Non solo. Il Reform Party, che sotto la guida spregiudicata di Lee Jun-seok aspira a diventare il terzo partito dopo Dpk e Ppp, deve buona parte della sua popolarità all’aver catalizzato le frustrazioni di molti giovani uomini che – a dispetto del gender pay gap più ampio fra tutti i Paesi Ocse: 29,3% – si sentono discriminati rispetto alle donne. Colpa in parte dei 18 mesi di leva obbligatoria e in parte dell’importanza attribuita dalle famiglie al successo accademico, un terreno su cui dominano le ragazze.Una divisione resa più acuta da quella generazionale. «Fino a 10-20 anni fa – spiega Paik – trovare un buon lavoro dopo la laurea era facile. Oggi non più. Tre quarti dei ragazzi scelgono di fare l’università e quando escono hanno aspettative elevate. Hanno studiato molto e in un sistema iper-competitivo. Non vogliono saperne di lavorare in fabbrica o in un cantiere navale». Un quadro che per chi vive lontano da Seul è ancora più cupo. «Parlare con i giovani che escono dalle università di provincia – spiega Byong Jin Ahn, un professore della Global Academy for Future Civilization della Kyung Hee University – è sconfortante. Sono insoddisfatti, sentono di non avere futuro e non si sposano». Non a caso la Corea del Sud, dove la correlazione tra nascite e matrimoni resta fortissima, ha il tasso di fertilità più basso del pianeta. Un’altra sfida per l’uomo che, a partire da domani, dovrà ridare lustro a una delle più grandi success story del secolo asiatico.

Condividere.
© 2025 Mahalsa Italia. Tutti i diritti riservati.