A metà settembre è caduta sul Centro Europa la pioggia di un anno intero in cinque giorni. Il ciclone Boris ha spazzato mezzo continente, dalla Polonia fino all’Emilia Romagna, passando per la Repubblica Ceca, l’Ungheria e la Romania, tutte alluvionate da esondazioni che hanno travolto ponti, sfondato due dighe e divelto chilometri di binari, causando la paralisi dei trasporti, in particolare nell’importante snodo ferroviario di St. Pölten, vicino a Vienna. Gli effetti di quelle alluvioni si sentiranno ancora per mesi, soprattutto sul trasporto merci, di cui l’Austria è un hub centrale per tutta l’Europa.
Alluvioni in aumento del 170%
Con la crisi del clima, gli eventi estremi stanno diventando la norma. Anche in Italia tocchiamo con mano questa estremizzazione: secondo l’Osservatorio Città Clima di Legambiente, nel 2023 le alluvioni ed esondazioni fluviali sono aumentate del 170% rispetto all’anno prima, le frane da piogge intense del 64%, i danni da grandinate del 34,5%, gli allagamenti del 12,4 per cento. Con la tragica ricorrenza di uragani, inondazioni, calore estremo e incendi boschivi, cambiano i rischi per le infrastrutture, che non devono solo resistere agli impatti climatici, ma anche essere in grado di riprendersi rapidamente dopo le interruzioni.
Le infrastrutture resilienti al clima sono infrastrutture pianificate, progettate, costruite e gestite tenendo conto di questa nuova imprevedibilità. Bisogna «trasformare la risposta emergenziale in azione preventiva», raccomanda un recente studio di Ref Ricerche, intitolato “Dal rischio climatico alle infrastrutture: come costruire la resa a prova di clima” e firmato dal direttore Donato Berardi insieme a Roberto Bianchini, Michele Tettamanzi e Samir Traini. Si tratta di «studiare le emergenze per identificare gli anelli più deboli del sistema infrastrutturale, utilizzare un quadro di misurazioni e azioni ad ampio spettro per individuare le risposte di adattamento, come codificato da Ocse, Ipcc e dalla Commissione Europea: occorre partire da qui», suggeriscono gli autori.
Ogni dollaro investito genera ritorno di 4
Capire dove sono allocati i fondi permette di identificare gli ambiti di maggiore fragilità, con specifico riferimento alle infrastrutture, ma i fondi stanziati per le emergenze sono solo la punta dell’iceberg. Ben altra è la dimensione degli investimenti da prevedere per una strategia di resilienza. «Per soddisfare gli obiettivi climatici e di sviluppo entro il 2030, è necessario un investimento annuale di 6,9 trilioni di dollari in infrastrutture sostenibili a livello globale», stima il rapporto dell’Ocse “Infrastructure for a Climate-Resilient Future”. D’altra parte, investire in infrastrutture resilienti al clima paga. Secondo la Banca Mondiale, ogni dollaro investito in resilienza genera un ritorno di 4 dollari, evitando la necessità di ricostruire. Una ricerca del Mit ha scoperto che gli investimenti in costruzioni resilienti al clima si ripagano entro due anni, in costi evitati dei danni. Eppure gli investimenti per la resilienza sono difficili da avviare, perché il vantaggio consiste proprio nel fatto che non succede nulla. I governi, dice l’Ocse, devono incoraggiare gli investimenti in resilienza climatica attraverso incentivi fiscali e garanzie per i finanziamenti verdi.
La visione a lungo termine è quella di fornire a progettisti, ingegneri, pianificatori, idrologi e proprietari immobiliari un quadro chiaro di dati per valutare in modo affidabile i rischi e migliorare la resilienza dei progetti futuri.