Storie Web domenica, Giugno 30
Notiziario

Il caporalato non fa sconti ai territori: lo sfruttamento del lavoro nei campi riguarda tutto il Paese. Ma a Sud, in aree maggiormente fertili e interamente vocate all’agricoltura, come quella della Piana di Gioia Tauro, in Calabria, o in Puglia, nella zona del foggiano, il fenomeno ha maggiore risonanza e si intreccia con le questioni migratorie, le agromafie e il peso della Gdo.

Il modello Goel contro lo sfruttamento

Nella Locride, Vincenzo Linarello, fondatore e presidente di Goel – “comunità di persone, imprese e cooperative sociali che opera per il cambiamento e il riscatto della Calabria” – inquadra il problema del reclutamento illegale dei braccianti extracomunitari partendo dalla fine, dall’intermediazione della catena di forniture agricole della Gdo: «Troppi passaggi, troppi intermediari, troppi grossisti locali che abbassano il primo prezzo all’agricoltore. Per le arance, ad esempio, parliamo di 10 centesimi al kg. A quel punto, tu agricoltore, o lasci marcire le arance, oppure scegli di starci dentro, ma per farlo devi tagliare il costo del lavoro. Devi sfruttare».

Gli indiani dei piccoli frutti

Sul versante ionico della Calabria vive, ben integrata da oltre 10 anni, una popolosa comunità di indiani. Sono circa 2000 solo tra Reggio Calabria, Melito, Siderno, Bovalino, Locri, Brancaleone e Condofuri, 3500 in tutto la provincia. La maggior parte lavora nei campi e tanti, in modo regolare, nelle piantagioni di frutti di bosco: piccole realtà agricole nate quasi tutte 20 anni fa da un progetto dell’ex vescovo di Locri Mons. Gian Carlo Bregantini, originario di Trento. Portò in Calabria il consorzio Sant’Orsola per sostenere una cooperativa di lavoratori stagionali impegnati nella coltivazione dei lamponi, finita nel mirino della ‘ndrangheta. Il progetto non si è mai fermato.

Fattoria della Piana, il 30% degli operai è extracomunitario

Il responsabile delle stalle di Fattorie della Piana (che sono ambienti robotizzati dove la mungitura è a flusso libero, con doccette e ventilazione per dare ristoro agli animali nei periodi più caldi) è un indiano che lavora lì da tanti anni. All’interno dell’azienda, un’eccellenza calabrese in provincia di Reggio Calabria, conosciuta in tutto il mondo per la qualità dei suoi prodotti lattiero-caseari e per la grande attenzione che pone sul benessere degli animali, sulla sostenibilità ambientale e sulla responsabilità sociale (in Giappone è un modello d’impresa che fa scuola), quasi il 30 per cento degli operai agricoli è extracomunitario. Fra i 180 dipendenti ci sono anche senegalesi, marocchini, sudamericani. «Per noi è fondamentale stabilire rapporti corretti – spiega Federica Basile, alla quale il padre Carmelo da qualche anno ha passato il testimone della presidenza dell’azienda –, ai nostri operai e braccianti diamo il vitto e spesso anche l’alloggio, assicuriamo un contratto regolarmente registrato e una busta paga adeguata. Ma il caporalato lo soffriamo anche noi. Un meccanismo che nega i diritti di chi lavora e che ci si ritorce contro sottoforma di concorrenza sleale».

Il fenomeno cambia, ex braccianti, nuovi caporali

In molti territori, come quello della Piana di Gioia Tauro, associazioni, cooperative e sindacati hanno messo in campo contro lo sfruttamento dei braccianti una serie di pratiche per garantire i diritti dei lavoratori stagionali, che sono per lo più africani. Lavoro legale, alloggio e accesso ai servizi sanitari tengono alla larga i caporali. Ma del fenomeno bisogna seguirne le evoluzioni: «Oggi i nuovi intermediari illegali sono spesso ex braccianti – spiega Celeste Logiacco Segretaria confederale di Cgil Calabria, con delega all’immigrazione -. Ma il numero dei lavoratori stranieri sta diminuendo, molti cercano sbocchi nell’edilizia, nel commercio e nei servizi, oppure provano a inserirsi in lavori agricoli che durano tutto l’anno, come ad esempio la raccolta del kiwi».

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