Stato o Regioni: chi gestirà i fondi europei di coesione dopo il 2027? È attorno a questo nodo che si giocherà la partita nelle prossime settimane tra Bruxelles e le regioni italiane, ma anche europee, sul piano di revisione affidato al Commissario Raffaele Fitto. Le regioni del Nord a guida leghista premono per una spesa autonoma, quelle del Mezzogiorno – dove va la gran parte dei fondi regionali che arrivano da Bruxelles (oltre 30 miliardi) – temono di perdere il controllo sulla gran parte del loro bilancio destinata agli investimenti. A Nord come a Sud, se la gestione passasse a una regia nazionale, secondo il modello del Pnrr, le cose cambierebbero parecchio.Entro luglio la Commissione europea dovrà formulare la proposta per il nuovo quadro finanziario pluriennale dell’Ue per il 2028-2034. Con 392 miliardi di euro nell’attuale programmazione 2021-2027, la politica di coesione è già ora il capitolo principale, oltre che il filo diretto di Bruxelles per gli investimenti sui territori. Una cifra non diversa è quello che le regioni vorrebbero per gli anni successivi. E su cui puntano per un orizzonte che vada ben oltre quel 2026 che vedrà chiudersi i rubinetti del Recovery fund. Proprio al modello Pnrr vorrebbe ispirarsi la riforma che dovrebbe mettere in campo la Commissione. Se così fosse, e se venisse approvata, sarebbero ancora le regioni a spendere i soldi destinati dal bilancio comune, ma in un quadro di gestione nazionale. Ad oggi, invece, sono le regioni a decidere in autonomia i capitoli di spesa, seguendo le linee guida comunitarie e rendicontando direttamente a Bruxelles. Tanto che molti dei progetti sono gestiti da cordate di regioni anche di Stati diversi. L’asse dei Balcani, ad esempio, è guidato dall’Emilia-Romagna. Così come la Sardegna dialoga con la Corsica. Il Friuli-Venezia Giulia vede da tempo Gorizia e Nuova Gorica, capitali europee della cultura, lavorare insieme. E ancora, sono transfrontalieri i progetti per gli hub alpini dell’idrogeno.
Il tema dell’autonomia di spesa ha visto già le regioni europee sulle barricate alla fine dello scorso anno, quando l’allora presidente del Comitato europeo delle Regioni, Vasco Alves Cordeiro, disse a gran voce che «cancellare il ruolo e la partecipazione delle regioni e delle città al futuro della politica di coesione non è accettabile e mina il progetto europeo». Un messaggio ribadito dalle 144 regioni di EURegions4cohesion, quando in una nota della delegazione italiana, che vide volare a Bruxelles anche i presidenti delle Regioni Lazio e Lombardia, Francesco Rocca e Attilio Fontana, si mise nero su bianco che i fondi di coesione «rappresentano un passaggio importante per la difesa degli interessi regionali». Con la precisa richiesta per il futuro di «un bilancio che risponda a un approccio di lungo periodo per investimenti ponendo le regioni al centro della programmazione e attuazione». Stesso tenore ribadito dalla Conferenza delle regioni e, a più riprese, ricordato nei colloqui tra i governatori e il Commissario Fitto. Anche perché l’Italia, subito dopo la Polonia, resta il Paese che più beneficia dei fondi di coesione.Ora si arriva al dunque. E il pressing si alza, sia dalle regioni già sulle barricate, sia da quelle più caute.
Sono toni battaglieri quelli che arrivano dal governatore pugliese Emiliano, che fa notare come, di fatto, «già ora i governi hanno un peso enorme nei meccanismi europei». «Il rischio è concreto, questo è il momento di farsi sentire – dice l’assessore al Bilancio dell’Emilia-Romagna, Davide Baruffi». In Lombardia l’assessore all’Innovazione e alla ricerca, Alessandro Fermi, non si esita a definire i fondi di Coesione «cruciali, il vero capitolo di spesa autonoma», e non nasconde il timore che una gestione nazionale freni l’innovazione. Stessi toni dal Friuli-Venezia Giulia alla Sardegna, fino a Roma Capitale, dove, altrettanto, si punta sui fondi di Coesione che arrivano dalla Regione per garantire una continuità di spesa quando saranno chiusi gli interventi straordinari di Giubileo e Pnrr.