Storie Web lunedì, Maggio 20
Notiziario

La siccità non fa paura ai Fremen, gli abitanti di Dune, che catturano l’umidità dell’aria con le loro “trappole a vento” e la raccolgono in grandi cisterne sotterranee. L’idea non è nuova: da millenni i contadini la sfruttano con varie tecniche, a partire da quelle dei nabatei, e ci sono diversi utilizzi moderni: chiunque abbia un deumidificatore o un climatizzatore, sa bene quanta acqua si possa estrarre dall’aria. Il problema, però, è come alimentare il processo: bisogna trovare un modo per estrarre acqua dall’aria senza consumare energia o al limite solo fonti rinnovabili, per poter offrire dispositivi fruibili anche alle popolazioni di aree remote, che non hanno accesso alla rete elettrica.

Già oggi, infatti, quasi due miliardi di persone, un quarto della popolazione mondiale, sono a corto di acqua da bere e nel 2050, con l’avanzare dell’emergenza climatica, saranno quattro miliardi, in base alle stime della Banca Mondiale. Da qui ad allora, la richiesta di acqua aumenterà del 55%, secondo i calcoli dell’Ocse, ma la quantità disponibile diminuirà. L’aumento della temperatura dell’aria, con maggiore evaporazione e precipitazioni più erratiche, ridurrà la portata dei fiumi e la ricarica delle falde acquifere, portando a una scarsità idrica globale, secondo le previsioni.

Come si estrae l’acqua dall’aria?

In queste condizioni, diventa urgente trovare nuove fonti idriche: la raccolta dell’umidità atmosferica, che contiene quasi 13mila chilometri cubi d’acqua (equivalenti a sei volte la portata di tutti i fiumi della Terra) è una fonte alternativa ideale, anche perché l’evaporazione spinta dal riscaldamento globale aumenterà questi volumi del 27% nel corso dei prossimi 50 anni. Uno studio recente pubblicato su Nature da Aviv Kaplan, direttore del Water Research Center dell’università di Tel Aviv, e da Stanislav Ratner, capo della ricerca di Watergen, l’azienda pioniera del settore, individua due grandi filoni per lo sfruttamento dell’acqua atmosferica: i metodi passivi e quelli attivi, ovvero alimentati da energia elettrica.

I metodi passivi, ampiamente minoritari ma più innovativi, sono basati principalmente sulla formazione naturale di rugiada e la sua raccolta, con una produzione fino a 27 litri al giorno per metro quadro, a seconda del tipo di supporto. L’acqua atmosferica viene intrappolata da fogli di maglia polimerica molto fine, per poi lasciarla cadere e convogliarla in un serbatoio. Per ora, un collettore da 40 metri quadri produce circa 200 litri al giorno, sufficienti a fornire acqua potabile a 60 persone, senza consumi di energia.

Questo dato, però, viene continuamente migliorato grazie alla scienza dei materiali. Un team guidato da Urszula Stachewicz dell’università di Cracovia, ad esempio, ha scoperto che la “rete” diventa più produttiva con l’elettrofilatura, che le conferisce una leggera carica elettrica attraente per l’acqua, aumentando le rese del 50%. Un ulteriore miglioramento, frutto dell’alleanza con Gregory Parisi, ricercatore del Rensselaer Polytechnic Institute di New York, è stato conseguito aggiungendo biossido di titanio alla rete di “cattura” dell’acqua. Ora le loro macchine sono utilizzate in diversi siti su tre continenti, prevalentemente in zone piuttosto nebbiose. Nella stessa categoria rientra Aquaseek, spinoff dell’università di Torino nato su iniziativa del professor Marco Simonetti e del ricercatore Vincenzo Gentile, che invece produce acqua atmosferica sfruttando un processo termodinamico applicabile dove l’umidità è molto bassa, come nel deserto. In collaborazione con la Princeton University, Aquaseek ha sviluppato un bio-polimero innovativo con elevate capacità di assorbimento che riesce a potenziare il risultato. La sfida è mettere in piedi, grazie a questi due brevetti, un impianto più efficiente rispetto agli altri.

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