Da una parte oltre 50 abbandoni tra quelli già decisi e i delisting potenziali in arrivo (Anima, IlSole24Ore, BancaGenerali, Illimity, Tinexta), dall’altra parte appena 25 nuovi debutti. È stato un anno e mezzo da dimenticare per Piazza Affari, colpita dal crollo dei multipli se confrontati con quelli del 2019 (da un minimo del 26% ad un massimo quasi del 60% a seconda del listino) e palcoscenico di 30 Opa, abbandoni per volontà dell’emittente (11 casi), fusioni, ma anche decisioni di Borsa Italiana nei casi di aziende che non avevano più la sostenibilità economica per rimanervi. Di fronte a svalutazioni di Borsa non giustificate rispetto ai valori fondamentali dell’impresa, l’imprenditore e/o l’azionista di maggioranza, preoccupato, chiede di uscire oppure viene allettato da offerte più convenienti come quelle che arrivano dai private equity. «Perché se è vero che raccogliere capitali tramite la Borsa è la via più conveniente per sostenere piani di crescita – sottolinea Paolo Rizzo di Anthilia Sgr – essere quotati richiede un impegno (non solo economico) che, quando crollano i valori, non sembra essere più giustificato» . «In qualche caso poi c’è anche il timore che altri, ricorrendo ad Opa ostili, possano impossessarsi dell’azienda» – gli fa eco Antonella Brambilla, partner Dentons.
Effetto Pir
«Sulla Borsa c’è stato poi il noto effetto Pir – sottolinea Rizzo – che ha consentito dal 2017 al 2021 a molte aziende di quotarsi e fare un salto dimensionale con effetti positivi per l’economia nazionale. Ma poi, scaduti i cinque anni utili per non perdere il beneficio fiscale, molti investitori hanno deciso di prendere beneficio, complice l’effetto BTp tornato interessante. Così si è assistito ad un poderoso deflusso e ad un ribasso delle quotazioni, indipendentemente dai fondamentali delle aziende. Fattore che allo stesso tempo ha disincentivato nuove quotazioni. Da qui il deperimento del mercato». Però considerando i valori di ingresso e quelli di uscita non a tutti è andata male. C’è chi con il delisting ci ha guadagnato (Renergetica, Gibus, Openjobmetis, Saes Getters, Medica, Greenthesis, Relatech, Nvp e Comal) e c’è da chiedersi se, soprattutto nel 2025, quando già era noto l’arrivo del Fondo Nazionale Strategico, quindi un potenziale positivo nuovo afflusso di capitali, certe società, soprattutto le più virtuose, avrebbero potuto resistere alla bufera. «In una visione strategica di lungo periodo il fatto di decidere di uscire da Piazza Affari può apparire contraddittorio, ma non sempre è facile contemperare certi interessi – aggiunge Brambilla – e talora va fatto. I delisting impoveriscono il mercato così come lo scarso numero di Ipo. Se il mercato è asfittico come in questi anni ci rimette tutto il sistema e i professionisti che vi operano . Tanto è vero che alcuni studi legali hanno chiuso le loro divisioni di Equity capital market. Noi fortunatamente no, ma il momento non è certo dei migliori per tutti noi». Come ricorda ancora Brambilla serve un’operazione di sistema che consenta con una modifica normativa oppure una disposizione ad hoc di prevedere per gli investitori pazienti (fondi pensione, casse di previdenza, fondazioni) un obbligo ad investire almeno una quota parte sulla Borsa italiana. «Chi è sul mercato deve guardare alla compagine societaria e se ci sono azionisti di minoranza – aggiunge Rizzo – dialogare con loro perché altrimenti non ha capito esattamente cosa voleva dire quotarsi. Serve comunicare in modo corretto anche le scelte aziendali più difficili».
Una lezione da cogliere
«Ciò a cui abbiamo assistito negli ultimi due anni va analizzato per migliorare il mercato. Le risorse del Fondo di Fondi su small cap e società growth richiede oggi dimensioni degli emittenti più elevati: una raccolta più ampia va correlata a flottanti più alti che diano più appeal al titolo e consolidino il suo valore di Borsa – sottolinea Anna Lambiase, Ceo di IR Consulting – in particolare se si vuole puntare ad avere investitori di lungo corso, l’ottica per chi si quota deve essere più che mai di lungo periodo». Non solo. Serve qualità: negli anni di vacche grasse sul mercato sono arrivate anche quotazioni di basso valore, aziende che oggi Borsa Italiana delista perché non più in linea con certi standard. Una lezione per il futuro e per il mercato.
Nuova occasione di rilancio
Doveva essere operativo già in primavera, almeno nelle intenzioni di Cassa depositi e prestiti, ma per l’avvio operativo del Fondo Nazionale Strategico si dovranno aspettare ancora alcune settimane. Secondo le indiscrezioni di mercato, i primi investimenti da parte delle Sgr coinvolte potrebbero arrivare in settembre. Ma qualcuno potrà anticipare. Al momento gli interessati (sarebbero già circa 25 le società in trattative e che avrebbero sottoscritto con il Mef l’accordo di riservatezza per poter operare) non stanno con le mani in mano. L’obiettivo principale è di convogliare risorse (si ipotizzano tra i 700 milioni e il 1,5 miliardi) verso le Pmi ma soprattutto di ridare ossigeno ad una Borsa asfittica. Il 70% del fondo è destinato a Pmi, ovvero società non incluse nell’indice Ftse Mib o nei titoli bancari. Il restante 30% a small cap, large cap italiane o titoli di Stato italiani/europei. Le azioni dovranno essere quotate a Piazza Affari.
Investitori pazienti
Trattandosi di investimenti in fondi chiusi con possibili finestre di uscite solo dopo il secondo anno di attività del fondo, il target è più marcatamente quello dei soggetti istituzionali. Anzi, si spera che quell’1% che oggi gli istituzionali hanno sulle Pmi possa arrivare al 5%. «Sebbene sia rivolto anche al pubblico retail nelle modalità definite dai gestori – sottolinea l’onorevole Giulio Centemero tra i promotori dell’iniziativa – mi aspetto che siano soprattutto gli investitori istituzionali i veri protagonisti. Certamente questa iniziativa dovrebbe aiutare a dare vitalità al mercato anche sotto il profilo dei multipli e quindi con l’apprezzamento più equo delle società che intendono quotarsi in Borsa, quanto meno ai livelli dei multipli europei. L’altro tema sul quale si deve lavorare sono i costi di compliance, sul quale però deve esprimersi l’authority. Il nostro obiettivo è quello di far partire un meccanismo che se funziona, come ci auguriamo, può dare vita ad altri simili, senza ricorrere a norme giuridiche. Penso in modo particolare al mondo delle start up. Su queste, tenendo conto del Regolamento, attualmente il Fsni può fare poco, anche se non c’è a priori un’esclusione».