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Notiziario

«Per oltre due secoli il miglioramento del tenore di vita è stato alimentato da progressive ondate di progresso tecnologico, oggi le tecnologie rimangono il principale motore della prosperità». Mario Draghi ieri ha scelto l’inaugurazione dell’anno accademico del Politecnico di Milano per lanciare un nuovo monito all’Europa mettendo al centro della crescita l’intelligenza artificiale. «Le economie avanzate non possono basarsi solo sul lavoro e il capitale per la prosperità – ha avvertito l’ex presidente del consiglio – rendendo le tecnologie ancora più centrali».

Le parole dell’economista anche in questa occasione non lasciano molti margini di interpretazione e inchiodano l’Europa a compiere una svolta nel ripensare i propri processi produttivi e l’idea stessa di produttività. «Le nostre popolazioni stanno invecchiando e gran parte delle infrastrutture fisiche risale a decenni fa. Come mostrò il premio Nobel d’Economia Robert Solow a metà degli anni ’50 del secolo scorso, una volta raggiunto questo stadio di sviluppo la crescita dipende in misura schiacciante dalla produttività, che in pratica significa nuove tecnologie e diffusione di nuove idee».

Sotto questo aspetto l’analisi di Draghi è impietosa. «Negli ultimi vent’anni – ricorda – siamo passati dall’essere un continente che accoglieva le nuove tecnologie, riducendo il divario con gli Stati Uniti, a uno che ha progressivamente eretto barriere all’innovazione e alla sua adozione. Lo abbiamo visto nella prima fase della rivoluzione digitale, quando la crescita della produttività europea è scesa a circa la metà del ritmo statunitense e quasi tutta la divergenza è emersa dal settore tecnologico. Ora questo schema si ripete con la rivoluzione dell’intelligenza artificiale». «Lo scorso anno – continua l’ex premier – gli Stati Uniti hanno prodotto 40 grandi modelli fondamentali, la Cina 15, l’Unione Europea solo 3; lo stesso schema si osserva in molte altre tecnologie di frontiera, dalla biotecnologia ai materiali avanzati fino alla fusione nucleare, dove numerose innovazioni significative e investimenti privati avvengono al di fuori dell’Europa. Se non colmiamo questo divario e non adotteremo queste tecnologie su larga scala – ammonisce Draghi – l’Europa rischia un futuro di stagnazione con tutte le sue conseguenze».

In queste ultime settimane altri due studi confermano le preoccupazioni dell’ex presidente del consiglio. Secondo l’undicesimo State of European Tech di Atomico, un rapporto che fotografa lo stato dell’arte delle tecnologie in Europa, il vecchio continente si trova nel paradosso di un atleta di talento che corre veloce ma non accelera mai abbastanza. I numeri raccontano un ecosistema che continua a espandersi con quasi quarantamila aziende tecnologiche finanziate contro le tredicimila del 2016 e un valore complessivo del comparto stimato in quattromila miliardi di dollari, il quindici per cento del Pil europeo. Crescono anche gli investitori attivi, che sono oggi duemilaottocentocinquanta, più del doppio rispetto a otto anni fa, mentre sul fronte della collaborazione tra pubblico e privato il continente continua a muoversi con passo lento, visto che solo un’impresa europea su cinque lavora con startup innovative e appena il nove per cento degli appalti pubblici è orientato a tecnologie digitali, percentuali molto inferiori a quelle statunitensi.

Il tema centrale del rapporto resta quello della sovranità digitale, che Tom Wehmeier di Atomico definisce la capacità dell’Europa di governare il proprio destino in un’epoca in cui tecnologia e algoritmi ridisegnano amministrazioni, difesa, finanza e sanità. I founder però non sembrano convinti della direzione attuale: quasi il settanta per cento giudica il contesto normativo troppo restrittivo e appena il diciotto per cento lo ritiene favorevole. La richiesta è chiara: un quadro regolatorio davvero unico che permetta alle aziende di operare e raccogliere capitali oltre confine in quarantotto ore, superando la frammentazione che oggi rallenta crescita e investimenti.

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