Si fa presto a dire qualità. L’universo delle denominazioni d’origine ha rappresentato l’architrave dello sviluppo del vino italiano negli ultimi 30 anni e ne ha scandito il passaggio da una produzione indifferenziata e di dubbia qualità (basti ricordare lo scandalo del metanolo) a una di qualità certificata e ancorata ai territori produttivi. Una strategia di successo anche se con qualche squilibrio.
Non basta infatti l’etichetta Igt, Doc e Docg per brillare sui mercati e accanto a non pochi esempi virtuosi ce ne sono molti altri poco significativi oltre a denominazioni che, di fatto, esistono solo sulla carta. Mentre, forse, tra le pieghe di questa realtà variegata si nascondono margini di sviluppo futuro per l’intero settore del vino italiano che può ricevere una nuova spinta dalla valorizzazione di marchi e aree produttive oggi marginali.
Se ne è discussoalla presentazione dell’Annual Report di Valoritalia, ente di riferimento in Italia per la certificazione dei vini Igt, Doc e Docg che certifica 219 denominazioni (su un totale di 526) pari al 56% della produzione per oltre 2 miliardi di bottiglie e un giro d’affari di 9,23 miliardi di euro.
Secondo i dati del report delle 219 denominazioni certificate da Valoritalia, le prime 20 rappresentano l’86% delle bottiglie, le prime 40 quasi il 95% mentre le ultime 139 raggiungono insieme, e a fatica, l’1,4 per cento. Dati ancora più eloquenti se riferiti ai valori: solo il 12% delle aziende certificate supera i 50 milioni di fatturato mentre il restante, a stento, supera il milione.
«L’elevato numero di denominazioni – ha commentato il presidente di Valoritalia, Francesco Liantonio – se è una forza in termini varietà dell’offerta è anche un limite strutturale se non si considerano gli aspetti organizzativi e dimensionali legati alla rappresentanza dei consorzi. Una limitata dimensione della denominazione comporta una limitata capacità per un organismo di tutela di svolgere le fondamentali funzioni di tutela, promozione e valorizzazione».