Storie Web mercoledì, Aprile 23
Notiziario

La Cina è stato il principale dossier di politica estera “bergogliana”, sfociato nel 2018 con un accordo tra la Santa Sede e la Repubblica popolare cinese. L’intesa “provvisoria”, rinnovata due volte per un biennio e lo scorso ottobre prorogata per quattro, riguarda le nomine dei vescovi in Cina, un tema spinoso che ha segnato nel corso del tempo gravi persecuzioni e discriminazioni – era l’era della “chiesa sotterranea” – ampiamente superate già dopo la storica lettera di Benedetto XVI ai cattolici cinesi del 2007, scritta in larga parte dall’allora giovane sottosegretario monsignor Pietro Parolin, poi dal 2013 Segretario di Stato e cardinale con Francesco.

Bergoglio sin dalla sua elezione ha manifestato una grande attenzione alla Cina («la vorrei visitare, la rispetto la ammiro» disse sorvolando il Paese nel 2015 di ritorno dalla Corea) ma il tanto sospirato viaggio non c’è mai stato, e neppure un incontro con il leader Xi Jinping. Sotto il pontificato di Ratzinger il dossier-Cina si era di fatto bloccato, anche per le critiche interne alla Chiesa, e specie del combattivo cardinale Joseph Zen Ze-kiun, fino al 2009 arcivescovo di Hong Kong e fiero oppositore di Pechino, che nel 2022 sarà pure arrestato. Bergoglio – spinto anche dalla sua vocazione gesuitica verso l’Asia – ridà slancio al dialogo, incarica Parolin, molto stimato nel Pcc, e si arriva all’accordo, mal visto anche dagli americani, che già all’epoca predicavano il “decoupling”, lo sganciamento dalla Cina. E infatti nel 2020, nella fase finale dell’amministrazione Trump-1, da Washington parte un’offensiva decisa contro il rinnovo, tanto che l’allora Segretario di Stato, Mike Pompeo, verrà a Roma per cercare di essere ricevuto dal Papa, che invece non lo vedrà. E allora farà leva sulla libertà religiosa, ma dentro la Santa Sede non c’era spazio per un ripensamento.

Lo scorso ottobre il rinnovo è stato per quattro anni «visti i consensi raggiunti per una proficua applicazione dell’Accordo Provvisorio» dirà un comunicato. Ciò mostra che il dialogo tra la Santa Sede e le Autorità cinesi – dopo l’avvio lento e la fase di “rodaggio” – prosegue come un cammino graduale, che passo dopo passo vede allargarsi il suo orizzonte e avvicinarsi nuove occasioni per verificare la crescita di sincerità, lealtà e reciproca fiducia nei rapporti tra le due parti. Oggi tutti i vescovi cattolici della Repubblica popolare cinese sono in piena e pubblica comunione gerarchica con il Vescovo di Roma e non sono più avvenute in Cina ordinazioni episcopali illegittime, cioè celebrate senza consenso papale: eventi che per decenni, dalla fine degli anni Cinquanta del Secolo scorso fino al 2011, avevano ferito la comunione ecclesiale e aperto lacerazioni tra i cattolici cinesi.

Negli ultimi sei anni – aveva ricordato l’agenzia Fides, tra gli organi di stampa il più informato sul dossier – tra momenti di stallo e difficoltà (comprese quelle legate al tempo della pandemia) nella Cina continentale sono state celebrate nove nuove ordinazioni episcopali cattoliche, mentre otto vescovi cosiddetti “non-ufficiali”, consacrati in passato fuori dalle procedure imposte dagli apparati cinesi – riferiti alla nota Associazione Patriottica, legata al partito – su loro richiesta sono stati pubblicamente riconosciuti nel loro ruolo episcopale anche da parte delle autorità politiche di Pechino (uno di loro, l’anziano Pietro Lin Jiashan, vescovo di Fuzhou, è poi deceduto nell’aprile 2023). A più riprese Parolin ha anche espresso la speranza che il Vaticano abbia una presenza stabile in Cina. «Anche se inizialmente potrebbe non avere la forma di una rappresentanza pontificia e di una nunziatura apostolica (le relazioni diplomatiche sono interrotte dal 1951, la Santa Sede le ha con Taiwan, ndr) ma comunque potrebbe aumentare e approfondire i nostri contatti. Questo è il nostro scopo».

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