Sono periodiche le critiche all’autotune, un software che ormai è parte integrante della musica contemporanea: ma questo strumento non è un raggiro, lo è il conformismo a cui ci siamo abituati.
Olly a Sanremo 2025 (Marco Alpozzi/LaPresse)
Se sulla barra di ricerca di TikTok inserisci le parole “Men telling you not to wear makeup” troverai migliaia di video in cui ragazze di ogni parte del mondo si truccano felicemente a dispetto dell’opinione contraria dei maschi della loro vita, che le preferirebbero struccate. Trend del genere hanno fluttuazioni stagionali e tornano ciclicamente sui social, proprio come le polemiche sull’uso di autotune nella musica contemporanea. E le ragioni di queste due insofferenze sono incredibilmente simili. Abbiamo un disperato bisogno di autenticità, a ogni costo – cioè, accettando il rischio di buttare via tutto il presente, in cambio del sogno di sostituirlo con un altrove (o un altroquando) in cui tutto è più vero e semplice e inventivo. Peccato che quest’opzione sia impraticabile, perché questi standard di genuinità e invenzione sono arbitrari e irraggiungibili, utopie che proprio per questa ragione affascinano persone impreparate in un’epoca di grande incertezza.
Se non fosse che anche persone molto preparate si scagliano regolarmente contro autotune. Ma quando non esisteva autotune la musica era migliore? Così sembrerebbe dedursi dalla recenti dichiarazioni di Elio, contenute in un’intervista al Giorno nella quale il musicista ha descritto in questo modo l’esperienza di ascolto della canzone di Olly Balorda nostalgia: “La mia umiliazione massima è stata ascoltare la canzone vincitrice di Sanremo cantata con l’autotune”, ha detto, aggiungendo che nulla è stato inventato dagli anni ‘70 a oggi. Si deve dedurre, però, che dal 1980 al 1996 la colpa di queste scarse idee musicali derivasse da un’altra ragione, visto che Auto-Tune (questo il suo nome ufficiale) doveva ancora essere messo in commercio. E vale la pena andare un attimo in quel momento storico per comprendere come siamo finiti qui, ancora una volta, a dibattere sui programmi di pitch correction, cioè quei software che correggono l’intonazione.
Gli anni ‘90 sono stati un periodo di produzione musicale gargantuesca, in ogni campo, dalla musica leggerissima al rock alternativo nichilista, dalla dance commerciale all’elettronica esoterica. Sono stati anche anni di costi produttivi drasticamente ridotti dalle tecnologie digitali. Nel 1997 Auto-Tune debutta sul mercato proprio per venire incontro a questi trend: anziché passare ore e ore, se non giorni, a cercare l’intonazione perfetta, il software permetteva di registrare una performance perfetta, esattamente come era stata scritta. Uno strumento di efficientamento, si direbbe, per produrre di più e “meglio”. Non tanto una stampella per gli artisti, come siamo portati a credere in una visione iperpersonalista della faccenda.
Valerio Scanu critica Tony Effe: “Neanche con l’autotune è riuscito a intonare Damme ‘na mano a Sanremo”
È molto facile pensare che autotune sia un trucchetto per artisti scadenti che vogliono comunque cantare, come se fosse la stampella che trascina dei poveri illusi dove la mancanza di talento o di applicazione non possono portarli. Di questo tenore sono le parole di Valerio Scanu a Radio 2, anche lui responsabile della riaccensione del dibattito, riguardo al quale ci si era già espressi quasi un anno fa. Ma i veri beneficiari di autotune erano i produttori.
Al giorno d’oggi, ogni innovazione arriva per creare “disruption” o per rispondere a domande che nessuno aveva chiesto – tipo, i software cosiddetti di intelligenza artificiale che plagiano la musica di artisti umani per permettere a tuo zio di avere una specie di canzoncina dopo aver digitato alcune parole su un sito internet. Una volta non funzionava così: le invenzioni, generalmente, servivano a risolvere un problema. Il problema che autotune voleva risolvere era il costo della produzione musicale, in nome di una priorità: la perfezione della registrazione così come era intesa, senza spazio per sbavature ed errori. Nei mercati saturi di offerta come era la discografia degli anni ‘90 la velocità di produzione e l’accuratezza sonora erano valori. E oggi, in un’industria che per sostenersi pubblica decine di migliaia di canzoni ogni giorno, siamo nella stessa situazione. Ma con una cosa in più rispetto al 1997: quasi 30 anni di abitudine ad ascoltare canzoni filtrate da un programma di pitch correction.

Esistono due modi di usare autotune, e questo lo sanno quasi tutti. C’è un modo esplicito e radicale – tornando al paragone con il trucco, è come applicarsi lunghissime ciglia, un ombretto blu elettrico e un rossetto arancione fluo: potresti non gradirlo, perché nonostante sia usato da tanto tempo ancora la sua palette timbrica ci risulta aliena. O magari non ti piace perché non sopporti umanamente gli artisti che ne fanno uso – di norma giovani rapper melodici. Qualunque cosa tu pensi di questo uso, non potrai mai sostenere che sia un raggiro ai danni dell’ascoltatore, perché nessuno potrebbe mai pensare che suoni di questo genere siano ottenibili con le corde vocali umane: in questo caso autotune è un effetto. Che può essere usato in modo anche molto creativo e originale, come puoi vedere nella disamina di Elisabetta Rosso, pubblicata su Fanpage due anni fa, alla quale ci sarebbe da aggiungere davvero poco.
Un altro modo di usare autotune (più facilmente un programma chiamato Melodyne) è per sveltire le registrazioni: correggendo l’intonazione, sia in diretta sia in una fase di editing successiva all’incisione, il produttore può pulire le piccole sbavature che erano sfuggite in diretta – o farlo fare a qualche suo stagista – e consegnare alla casa discografica il miglior lavoro possibile nel minor tempo possibile. In questo caso autotune è usato con effetti diametralmente opposti all’effetto robotico di cui sopra: la correzione deve risultare invisibile – nel paragone con il trucco è l’equivalente del no make-up make-up. Ed è con queste finalità che autotune è presente – mi azzardo a dire – in ogni singolo studio di registrazione sulla faccia della Terra: perché è uno strumento che qualsiasi produttore preferirebbe tenere per ogni evenienza, anziché rimpiangere di non avere.
Eppure, queste polemiche riaffiorano regolarmente, con pesanti allusioni al fatto che questo o quel cantante non sia capace di fare il suo mestiere, come se una posizione di superiorità morale, deontologica, artistica fosse mai possibile alle condizioni poste da chi polemizza. Perché i trucchi in musica esistono da sempre, e anche i puristi ne hanno fatto uso. Se hai inondato di riverbero la tua voce per farla sembrare più “grossa”; se la tua strumentale è stata quantizzata per rendere il tempo più regolare; se hai usato double-tracking (la stessa melodia cantata due volte e sovrapposta l’una all’altra) per rendere più “presente” il tuo canto; se anziché cantare due o tre volte il ritornello della tua canzone, hai scelto di copiare e incollare quello venuto meglio; se hai mai fatto del comping (taglia-e-cuci di fonemi “venuti bene” da diverse incisioni della stessa traccia vocale) perché quella strofa aveva bisogno di qualcosa in più: in tutti questi casi sei colpevole di un crimine artistico non meno grave dell’accensione di autotune.
Da quando le capacità tecniche dello studio d’incisione hanno concesso infinite possibilità agli artisti, l’orecchio si è abituato a standard musicali irreali. Diciamo che almeno dagli anni ‘40, dall’introduzione della registrazione multitraccia (le cosiddette “piste” su cui si imprimono diverse tracce da miscelare poi con i giusti livelli di volume), abbiamo accettato implicitamente che un disco fosse portatore di un’opera irrealizzabile dal vivo, e per mezzo secolo questo ha spinto gli artisti migliori a essere più creativi in studio e a creare approssimazioni interessanti dal vivo – o quantomeno a rendere più spettacolari gli show. Anche se facevano uso di trucchi, o proprio per questa ragione. Finché oggi siamo abituati al fatto che, per esempio, un disco pop contenga centinaia di piccole parti strumentali, come faceva Phil Spector o come fa oggi Finneas lavorando con la sorella Billie Eilish. L’abitudine è cruciale anche per comprendere l’uso frequentissimo di autotune. Perché alla fine è l’orecchio che comanda.
Anche quando è usato in modo invisibile, la pitch correction modifica il timbro della voce umana: principalmente perché, una volta costretta a colpire con precisione assoluta la nota intesa, questa perde le naturali fluttuazioni e flessioni che anche il più talentuoso vocalist si ritrova a emettere. Prendiamo le parole di un’insospettabile che non ha certo bisogno di aiutini, cioè Giorgia: qualche anno fa, presentando il suo disco di cover Pop Heart, la cantante raccontò di come fu convinta dal suo produttore a usare una pitch correction non per sistemare le note, ma per far assomigliare il suo timbro vocale a quello che andava per la maggiore. Ed è proprio questo il punto della questione. Il nostro orecchio ormai è abituato a sentire voci che colpiscono le note con una precisione inumana, anche dal vivo: nemmeno il palcoscenico può più essere considerato un luogo privo di trucchi, la vera prova dell’artista senza gli “aiutini” dello studio di registrazione. E sono certo che chi non fosse al corrente di questo fatto, che neppure i concerti sono più immuni dalle correzioni di intonazione, sta per gridare al complotto. Ma non dovrebbe.
Se possiamo tornare un attimo al paragone iniziale, voglio presentare il risultato di un sondaggio svolto da YouGov nel 2017 presso mille intervistati americani: il 63% di loro pensava che il trucco usato da una donna fosse una forma di inganno. Esistono dati e letture contrastanti su questo tema, comprese alcune bufale che circolano online da anni; ma ci sono anche parecchie prove che molti maschi siano diventati insofferenti verso la possibilità che una donna si presenti pubblicamente in una maniera e privatamente in un’altra, e del resto molti non accettano che un’attrice sex symbol non sia altrettanto sensuale quando è paparazzata “al naturale”. Dentro questa contraddizione sta una generazione molto infelice e insicura, che proietta su questi orpelli un’ansia molto più grave di un dibattito sull’uso o meno di un software di produzione.
“Non metterti il trucco perché stai meglio senza” è addirittura un cliché della canzone (italiana e no). Dalle parole di Mogol in Donna selvaggia donna di Battisti in avanti, questo sentimento è stato espresso più volte finché non è diventato quasi ubiquo nel rap contemporaneo: lo ripetono Geolier in M’ manc, Coez in Jet, Guè in Hey baby, Shiva in Problema e potremmo andare avanti a lungo – peraltro, molti dei citati hanno fatto uso di autotune con generosità, perché il loro trucco è consentito dalla polizia morale a cui fanno riferimento. Accanto al “senza trucco”, in realtà, il cliché si è arricchito ultimamente di “senza filtro”, aggiungendo al discorso un ulteriore livello di complessità – e forse una chiave di lettura. Siamo ossessionati dai complotti, grandi e piccoli che siano: qualcuno non ce la racconta giusta, e vediamo il mondo sfuggirci dalle mani perché invecchiamo, perché non siamo più al centro dell’attenzione, perché non abbiamo i mezzi intellettuali per interpretare o semplicemente la voglia di addentrarci nelle culture giovanili con cui vorremmo ancora identificarci. Il “filtro” (sottinteso: di Instagram) sembra la menzogna definitiva, come se la veste estetica di un contenuto destinato a un consumo istantaneo – tipo una Story, o una canzone pop – ne determinasse il quoziente di “verità”. E così tiriamo fuori paroloni esagerati come “autentico”, “genuino”, “originale”, per tappare le voragini lasciate dalla nostra mancanza di comprensione, o dal nostro disinteresse. La risposta semplice a un problema complesso è sostenere che tutto sia finto, e che le cose veramente belle e importanti siano alle nostre spalle anziché davanti a noi.
Ma l’autotune usato da Olly non è un raggiro: come sa chi ha visto il suo riscaldamento backstage, il cantante e autore genovese arriva benissimo dove deve arrivare con la sua voce e basta. L’autotune usato da Olly è un trucco, come lo sarebbe un eyeliner o un blush: serve perché, secondo gli standard estetici contemporanei, “sta bene”. Cioè, per quanto non eccessivamente marcato come nel caso di uno Sfera Ebbasta, si tratta di un effetto che si riconduce a una palette di timbri che è entrata nel gusto collettivo da molti anni. Di fatto, si tratta di marketing: se vuoi arrivare a un pubblico che è abituato a sentire musica con voci che suonano in un certo modo, sarà meglio usare autotune, che ti “serva” o meno. Anche ostentare il non-uso di autotune, quindi, è diventato in parte uno strumento di marketing. Non bisogna invocare la stupidità degli ascoltatori o la malizia degli artisti per capire cosa sta succedendo realmente: l’industria musicale è giunta alla saturazione e una crisi sembra imminente.
Il pop esiste solo in un equilibrio teso e instabile fra conformismo e novità: ci rassicura ciò che risulta familiare al nostro orecchio; ma d’altra parte senza qualche spunto “differente” viene meno la freschezza, e allora – come è capitato con le canzoni dell’ultimo Festival di Sanremo – cala il nostro interesse. Le condizioni del mercato culturale di oggi rendono più sicuro l’investimento in un nuovo prodotto che sia il più possibile indistinguibile dal precedente: come le commedie di Netflix o i cinecomic Marvel che si assomigliano in modo preoccupante, anche le canzoni sono incentivate a mimetizzarsi sullo sfondo, perfino nella texture della traccia vocale. E c’entra il modo in cui Spotify ci ha convinti a usare il suo servizio.
Spotify ha scommesso sull’uso della sua piattaforma non come mezzo di ascolto, ma come accompagnamento passivo che si fa i fatti suoi sullo sfondo nel corso della giornata. Non siamo diventati più stupidi o disattenti: è l’esito di un’esplicita operazione commerciale, come ha messo in luce la giornalista americana Liz Pelly nel suo libro-inchiesta sull’azienda svedese, intitolato Mood Machine. Questo marginalizza necessariamente la musica differente e non conforme, già attivamente penalizzata per la sua posizione di minoranza. Se vogliamo musica “vera”, quindi, non dobbiamo vietare autotune o penalizzare Olly, ma pretendere una cosa molto meno intrigante e ingaggiante: una riforma della distribuzione musicale.
Le nostre abitudini di gusto sono usate contro di noi, e anziché prendercela con un trucco o cercare un fantasma di autenticità e un capro espiatorio, potremmo esigere musica che non sia programmata dalle piattaforme per assomigliarsi in ogni aspetto. E se le piattaforme non saranno disposte a farlo, perché rinunciare al flusso continuo di content identico farà calare le ore di ascolto e quindi i loro profitti, sarà forse il caso di abbandonare le piattaforme stesse. Nel frattempo, anziché ossessionarci se il cantante sia in grado di toccare questa o quella nota, suggerisco di prestare più attenzione a cosa una canzone ci può dire con la scrittura e la composizione. Andare noi, per primi, alla radice.