Quando prendiamo il sole in spiaggia o ai bordi di una piscina sentiamo il calore della radiazione solare, ma certamente non percepiamo il fatto che la luce esercita anche una pressione costante sulla nostra pelle.
Poca roba sia chiaro, anzi pochissima, ma misurabile, anche 10mila volte minore di quella esercitata da un grammo di olio solare spalmato sulla stessa superfice.
Eppure, è più di un secolo che si cerca di capire come sfruttare la pressione della radiazione elettromagnetica per i viaggi spaziali, in particolari quelli che sono uno dei sogni dell’umanità: i viaggi interstellari.
Già Konsaltantin Tsiolkovsky, il visionario padre dell’astronautica, ne parlava all’inizio del ‘900, mentre il primo articolo scientifico sull’argomento è del 1958, a cura dell’Ibm che, come sempre ha fatto, esplorava qualunque possibile interessante, e redditizia, innovazione. Oggi, grazie a un esperimento tenuto al Caltech, il prestigioso Istituto di tecnologia californiano, la soluzione è più vicina.
La propulsione spaziale oggi si basa sulla chimica o l’elettricità: i razzi vettori più o meno giganteschi bruciano, in poche decine di secondi, quantità incredibili di carburante, e fortunatamente si va sempre più verso quelli meno inquinanti come il metano, oppure sfrutta l’elettricità. I primi motori ci danno spinte potenti e relativamente brevi, i secondi invece spinte molto più contenute, con cui è impossibile sfuggire all’attrazione terrestre, ma prevedono una accelerazione costante e quindi possono essere utili, una volta sfuggiti all’attrazione terrestre, per viaggi di lunga durata. Attualmente, però, migliorarli anche di poco richiede forte impegno economico e di sviluppo, che forse sta portando questa tecnologia su un binario morto.