Il rapporto di Forum Disuguaglianze e Diversità fa il punto sul part-time involontario, cioè non voluto dal lavoratore. Un fenomeno cresciuto solo in Italia, al contrario degli altri paesi europei. E che penalizza soprattutto le donne: il 16,5% sul totale delle donne lavora poco perché non ha altra scelta.

Il part-time in Italia non è una scelta. Si intitola così il recente rapporto del Forum Disuguaglianze e Diversità dedicato al lavoro part-time involontario, cioè non voluto dal lavoratore. Lo studio si concentra sulle dinamiche che in Italia hanno portato a questo fenomeno e sui suoi effetti, che finiscono per penalizzare soprattutto le lavoratrici. Nel rapporto, infatti, si legge che il part-time nel suo complesso (non solo quello involontario) è prevalentemente femminile: sul totale delle donne occupate, il 16,5% rientra tra le lavoratrici di part-time involontario. E in più del 60% delle imprese, i dipendenti part-time sono quasi esclusivamente o esclusivamente donne. Viene poi analizzata la discrepanza che c’è con gli altri paesi europei: se altrove il lavoro a orario ridotto è utilizzato al fine di riconsiderare il rapporto tra tempi (e qualità) di vita e tempi di lavoro, in Italia il fenomeno è usato per ridurre i costi per le aziende. Nell’ultima parte, lo studio propone tre aree di intervento su cui puntare per migliorare le attuali condizioni di lavoratori e lavoratrici.

Cos’è il part-time involontario e perché penalizza soprattutto le donne

Il part-time involontario è quel fenomeno che riguarda tutti coloro che hanno cercato o cercano un impiego a tempo pieno, ma accettano per necessità (o per assenza di altre possibilità) un lavoro part-time. Non solo, in questo settore i lavoratori si ritrovano spesso nell’incertezza per quel che riguarda il numero di ore di lavoro, costretti ad accettare che l’orario di lavoro sia aumentato secondo la necessità del datore di lavoro. Il rapporto è stato realizzato dal Forum Disuguaglianze e diversità, think tank da sempre attento ai mutamenti del mondo del lavoro presieduto dall’ex ministro del Sud Fabrizio Barca. Vengono subito posti in luce i numeri che riguardano questo fenomeno, in costante crescita: se nel 2004 la quota di part-time involontario calcolata rispetto al totale europeo era del 36%, nel 2018 la stessa è quasi raddoppiata, raggiungendo il 64%.

C’è poi la questione (centrale in tutto il rapporto) della disparità di genere. “Il lavoro a tempo parziale – spiega il report – ha una connotazione fortemente femminile: circa tre quarti delle persone occupate con questo regime orario sono donne”. Tra gli uomini, invece, il fenomeno del lavoro ridotto è ancora poco diffuso (8,3% rispetto al 31,8% delle donne) influendo ancora meno sull’occupazione complessiva. Lo stesso andamento si verifica anche per il part-time involontario, per cui l’incidenza sul totale delle persone occupate passa dal 5,6% per gli uomini al 16,5% per le donne; che si confermano anche nel part-time involontario. In otto imprese su dieci l’incidenza delle donne in part-time sul totale dei dipendenti è oltre il 50%. Dal report si evince che il 12% delle imprese usa il part-time in modo strutturale (oltre il 70% dei dipendenti) e che queste imprese sono meno attente alla qualità del lavoro. Si tratta solitamente di professioni non qualificate o di aziende che operano nella ristorazione, degli alberghi e dei servizi alle famiglie.

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Un fenomeno tutto italiano

Per quanto riguarda l’incidenza del lavoro ridotto in Italia, il confronto con l’Europa è quasi desolante. L’analisi tiene in considerazione il decennio successivo alla crisi del 2008. Da allora il part-time in Italia è in aumento, è diminuito il lavoro a tempo pieno mentre è stabile – rispetto al 2008 – il numero complessivo di chi ha un impiego. Solo l’Italia, però, ha visto aumentare il part-time involontario, quello non scelto da chi lavora: il 30% dei posti di lavoro che nel 2018 ha riportato l’occupazione agli stessi livelli pre-crisi deriva infatti da part-time involontario. L’aumento del part-time involontario è parte dell’eredità della crisi: “La quota di dipendenti a tempo indeterminato sul totale di chi ha un’occupazione – spiega infatti il report – è rimasta la medesima”. L’abuso del part-time involontario in Italia più che in altri Paesi europei è confermato anche dai dati Eurostat. Per quanto riguardo il part-time in generale, l’Italia è in linea con gli altri paesi: (18,2% dei lavoratori in Italia, 18,5% la media europea). Ciò che fa la differenza è quante persone lavorano in part-time in mancanza di un alternativa a tempo pieno, perché è l’unica loro scelta. In Europa i lavoratori e le lavoratrici in part-time involontario sono un quinto dei lavoratori totali (19,7%) a fronte di più di uno su due in Italia (56,2%).

Le possibili soluzioni

Infine il report, prima di illustrare possibili soluzioni, ospita interviste anonime a cinque lavoratrici in part-time involontario. “È stata una scelta obbligatoria – dice una di loro -, nel nostro ambiente in molte ci ritroviamo a lavorare dopo essere state ferme 10-15 anni per aver cresciuto i figli. Avevo chiesto un full-time, ma non mi è stato dato. “Sei fortunata ad avere 4 ore”, mi dicono. Due ore di lavoro al giorno, inclusa la pausa pranzo, sono una presa in giro”.

Quanto alle possibili aree di intervento, Forum Disuguaglianze e Diversità suggerisce di puntare sul rafforzamento della contrattazione (il lavoro ad orario ridotto deve essere associato a un contratto a tempo indeterminato), disincentivi alle forme involontarie di part-time (ad esempio una forma di denuncia che faccia sí che, a seguito di verifica, il lavoratore sia poi assunto). Infine, più controlli. Su quest’ultimo punto, il report ricorda che esiste una raccomandazione europea per l’aumento degli ispettori del 20%.

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