Conflitto Israele-Palestina e in Medio Oriente



6 Febbraio 2025



15:50

Riccardo Alcaro (IAI) commenta a Fanpage.it le parole di Trump, che ha chiarito la volontà di attuare una ‘ricollocazione’ dei palestinesi al di fuori della Striscia di Gaza: “Si tratta di spingere, anche con la forza, oltre 2 milioni di persone al di fuori del luogo in cui vivono, la parola giusta per questo tipo di operazione è pulizia etnica”.

Nella conferenza stampa di martedì tenuta dopo aver ricevuto Netanyahu alla Casa Bianca, il presidente americano Donald Trump ha dichiarato che gli Stati Uniti prenderanno il controllo della Striscia di Gaza. L’operazione annunciata da Trump prevede la ‘ricollocazione’ dei palestinesi, che secondo quanto spiega l’amministrazione americana, dovrebbe essere temporanea. La parola utilizzata è ‘Relocation’. Ma cosa significa esattamente?

“Saremo responsabili dello smantellamento di tutte le pericolose bombe inesplose e altre armi sul sito. Livellare il sito e sbarazzarsi degli edifici distrutti, livellarlo, creare uno sviluppo economico che fornirà un numero illimitato di posti di lavoro e alloggi per la gente della zona, fare un vero lavoro, fare qualcosa di diverso”, è il piano di Trump, che quando gli hanno domandato se le truppe statunitensi saranno schierate a Gaza, ha risposto così: “Faremo ciò che è necessario. Se è necessario, lo faremo. Prenderemo il controllo di quel posto”.

Perché il nome giusto per il piano di Trump a Gaza è “pulizia etnica”

Il tycoon non ha escluso di poter prendere il controllo della Striscia con una una “posizione di proprietà a lungo termine” (“long-term ownership position”) che potrebbe assicurare “grande stabilità” all’intera Regione del Medio Oriente.

Guerra in Medio Oriente, Tajani in Israele contro piano Trump: “A Gaza Italia per soluzione due Stati”, le ultime news

Non la pensa così l’analista Riccardo Alcaro (Istituto Affari Internazionali), secondo cui c’è un solo modo per leggere le intenzioni di Trump a Gaza: pulizia etnica. “Dal momento che si tratta di spingere, anche con la forza, oltre 2 milioni di persone al di fuori del luogo in cui vivono, la parola giusta per questo tipo di operazione è pulizia etnica. Trump a volte ha fatto riferimento a uno spostamento temporaneo, ma nessuno crede che se i palestinesi lasciassero Gaza avrebbero davvero possibilità di rientrare”.

“Questa pulizia etnica avrebbe una responsabilità mista, ma per la maggior parte sarebbe di Israele, che ha distrutto Gaza, rendendola inabitabile. Su una cosa Trump ha ragione: Gaza è effettivamente un cumulo di macerie. Già Biden, prima di Trump, invece di riconoscere come responsabile Israele per il livello di distruzione inflitto a Gaza, sottoponendolo a una qualche forma di pressione o sanzione, sta dando a Israele carta bianca. Ora Trump sta dicendo che alla luce di quello che ha fatto Netanyahu, i palestinesi non hanno altre opzioni, quindi sta dando un avallo ex post”, spiega Alcaro.

“Sostanzialmente si sta parlando della rimozione forzata di oltre 2 milioni di persone dalle loro case e dalle loro terre. Tutto questo non può che essere chiamato pulizia etnica, ed è un crimine in base al diritto internazionale, e una evidente violazione anche di norme non ufficiali nelle quali tutti ci riconosciamo”.

Trasformare Gaza nella “Riviera del Medio Oriente” è davvero possibile?

Ma un’operazione del genere è concretamente fattibile? Bisogna considerare innanzi tutto il fronte interno agli Stati Uniti: “Trump ha parlato di un’America che prende possesso della Striscia di Gaza, per trasformarla nella ‘Riviera del Medio Oriente’ sul Mediterraneo, una grande operazione immobiliare per realizzare magari qualche resort di lusso. Non c’è nessuna base giuridica, che possa legittimare un’operazione del genere. Ma dal punto di vista meramente politico, bisognerebbe capire quanto sostegno avrebbe Trump negli Stati Uniti, per un intervento che necessiterebbe di colossali risorse finanziarie, significative risorse militari, visto gli Usa dovrebbero schierare le truppe e usare la forza, nel caso in cui i palestinesi opponessero resistenza. Senza contare che un piano di questo genere ha un orizzonte temporale lungo, come minimo 10 anni, e andrebbe ben oltre la fine del mandato di Trump, che è di 4 anni”. Secondo Alcaro quindi si pone il problema della sostenibilità di un impegno così ingente.

Si deve tenere conto poi dei fronti regionali, non meno importanti. “Se Trump dovesse effettivamente passare ai fatti, gli oltre 2 milioni di palestinesi dovrebbero essere ‘ricollocati’ in due Paesi arabi, Giordania ed Egitto. Se ciò dovesse avvenire, questi due Paesi correrebbero seri rischi di destabilizzazione. Il primo è una piccola monarchia, dove la dinastia regnante è dispendente finanziariamente e militarmente dal sostegno americano. Dagli anni Novanta in poi la Giordania è un solido alleato americano, che si è sempre fatto portatore della causa palestinese. La maggior parte degli abitanti è palestinese, e la Giordania ospita rifugiati palestinesi sia della guerra 1948-1949, sia della guerra del 1967. Questo vuol dire che se il Paese dovesse accettare il piano di Trump, si renderebbe corresponsabile dell’attuazione dell’obiettivo contro cui tutti gli arabi che da sempre sostengono la causa palestinese si sono battuti, cioè appunto la pulizia etnica, la cacciata dei palestinesi dalle loro terre. E questo implicherebbe un enorme malcontento popolare nei confronti della dinastia, e quindi un serio rischio di destabilizzazione politica”, spiega Alcaro a Fanpage.it.

“Discorso simile si può fare sull’Egitto, perché anche il governo egiziano ha sempre sostenuto la causa dello Stato palestinese, quindi verrebbe visto come corresponsabile se si dovesse piegare ad accogliere circa un milione di persone, a seconda di come verrebbero suddivisi i palestinesi. Come la Giordania, anche l’Egitto è molto dipendente dagli Usa, perché sono il suo principale fornitore di armi e il principale sponsor finanziario, perché è proprio grazie al voto degli Stati Uniti se l’Fmi continua a sostenere l’Egitto. Qui sicuramente i rischi di destabilizzazione rispetto alla Giordania sarebbero minori, perché nel Paese non c’è una maggioranza palestinese, anzi i palestinesi sono pochissimi, mentre gli egiziani sono più di 100 milioni. Ma gli egiziani sono fortemente anti-israeliani e fortemente pro-palestinesi, per cui vedere il loro governo iper-autoritario e autocratico di al-Sisi piegarsi così al disegno sionista di epurazione dei palestinesi, comporterebbe rischi di violenza, perché un’operazione del genere funzionerà da catalizzatore per la radicalizzazione di gruppi estremisti, anti-americani e anti-israeliani”.

E poi c’è il fronte saudita: “Il disegno di Trump pregiudicherebbe la possibilità che l’Arabia Saudita acconsenta a normalizzare i rapporti diplomatici con Israele. E proprio la normalizzazione dei rapporti diplomatici di Israele con i Paesi arabi da lungo tempo è un obiettivo ricercato dalle amministrazioni americane. Nel corso dell’ultimo anno i sauditi hanno reso chiaro che non intendono normalizzare i rapporti con Israele in assenza di una garanzia di uno Stato palestinese, o quantomeno di un processo che porti a quell’esito. Se si dovesse davvero procedere con la pulizia etnica a Gaza, le possibilità che i sauditi acconsentano a normalizzare i rapporti con Israele si ridurrebbero sensibilmente”.

Trump aiuterà Netanyahu a raggiungere i suoi obiettivi?

Netanyahu, dopo il colloquio con Trump, ha ribadito che Israele ha tre obiettivi: distruggere Hamas, garantire il rilascio degli ostaggi e fare in modo che Gaza non rappresenti mai più una minaccia per Israele. Trump sarà davvero un suo alleato?

“Per garantire la sicurezza di lungo periodo di Israele ci sono due modi: o si trova un accordo politico con reciproca soddisfazione di israeliani e palestinesi, oppure uno dei due vince e impone la sua volontà sull’altro. Non c’è nessuna volontà politica, e non c’è dagli anni Novanta, di fare ai palestinesi concessioni che possano lontanamente essere considerate accettabili da Israele. Gli attentati del 7 ottobre sono stati utilizzati da Netanyahu per spingere l’asticella il più in alto possibile, e ora con Trump si ritrova la possibilità di raggiungere l’obiettivo massimalista, che era sempre stato vagheggiato dagli estremisti che siedono nel suo governo, che è quello della pulizia etnica. Se non c’è più nessun palestinese a Gaza, non c’è più nessun problema di sicurezza a Gaza. Se Trump ha detto che i palestinesi devono lasciare la Striscia, si può ragionevolmente ipotizzare che non metterà freni a Israele, che vuole rendere infernale un luogo già invivibile”, dice l’esperto dello IAI a Fanpage.it

“Se Trump è disposto a promuovere pubblicamente l’idea di una pulizia etnica a Gaza, anche se non la chiamerebbe mai così, vuol dire che tutto ciò prelude a un probabile via libera da parte dell’amministrazione americana all’annessione israeliana di parte della Cisgiordania. Questo risultato per gli israeliani è molto più importante di Gaza, che anche nelle mire degli estremisti resta un obiettivo secondario”.

E il governo italiano?

Il governo italiano non ha condannato le parole di Trump, anzi il vicepremier Salvini ha detto che il presidente Usa si meriterebbe il Nobel per la Pace, se riuscisse a portare a termine il suo intento. Il vicepremier Tajani ha ribadito la posizione dell’Italia, cioè il raggiungimento della soluzione dei due popoli e due Stati.

Riccardo Alcaro sottolinea che il governo italiano è in linea con la maggior parte dei governi europei, che sulla questione del conflitto israelo-palestinese sono passati dall’avere un grande ruolo diplomatico, negli anni Ottanta e Novanta, con una posizione distinta dalla Casa Bianca, a diventare spettatori passivi. “La soluzione dei due popoli due Stati esiste solo nelle menti dei diplomatici. Israele ne ha sempre distrutto le condizioni, contribuendo a favorire l’emergere dell’opzione più reazionaria, oltranzista e fanatica di Hamas, che gli ha fornito la giustificazione di non avere un reale partner di pace. Gli europei, e gli italiani con loro, non hanno mai avuto la spina dorsale di dare seguito alla loro posizione, mettendo pressione a Israele. Il risultato è che oggi per l’Italia è più facile continuare a riproporre quello schema, perché preferisce mantenere una posizione che diplomaticamente può difendere, davanti ai tanti Paesi arabi, che sono nostri vicini. Sostanzialmente è una posizione di ipocrisia e debolezza”.

Condividere.
Exit mobile version