Appena dieci anni dopo la nascita del Regno d’Italia, il governo agiva con convinzione per sostenere una delle più importanti filiere del Paese, quella della seta: nasceva così, nel 1871, la prima Stazione Bacologica Sperimentale di Padova (oggi parte del Crea, organismo di ricerca del ministero dell’Agricoltura), per aiutare gli allevatori di bachi ammalati di pebrina e convincerli a non delocalizzare la produzione all’estero. Oggi servirebbe la stessa convinzione per ridare vita a quella che fu la gloriosa produzione di seta italiana, scomparsa a metà del secolo scorso sotto i colpi della concorrenza cinese (alimentata anche dagli errori della delocalizzazione delle imprese italiane) e del boom delle fibre sintetiche.

Ma proprio dalla Cina viene oggi la spinta più energica alla potenziale ripartenza. La nostra industria tessile, che ha il primato della produzione di tessuti d’alta gamma, con un valore nel 2024 di 1,1 miliardi di euro, compra da Pechino il 95% del filato, che però arriva in quantità sempre minori, a causa della diminuzione e dell’evoluzione della produzione locale, e con costi sempre maggiori: in dieci anni il prezzo di un kg di seta è raddoppiato, toccando 80 euro, uno dei valori più alti fra le fibre, considerando che un kg di cotone si ferma 2 euro e uno di lana si trova in media fra i 7 e i 15. L’India sta aumentando la produzione, ma il clima non favorisce l’alta qualità della fibra.

Il sogno di rimettere in piedi un’intera filiera della seta, dunque, è quasi un urgente obbligo. Ben conscia di questo, un anno fa Confindustria Moda ha presentato al Mimit un dettagliato piano per il rilancio della produzione, con una strategia che in quattro anni potrebbe produrre i primi, importanti risultati: «Ricostruire la filiera da capo è di certo difficile – nota Sergio Tamborini, presidente dell’associazione -. Si deve ripartire dagli alberi, dai gelsi, raggiungere una produzione di foglie adeguata per nutrire i bachi, gestire i bozzoli. Si tratta di una produzione complessa, per quanto supportata dalla meccanizzazione, a differenza di un tempo, che richiede investimenti e lunghe attese per entrare a regime».

Il Centro di Bachicoltura del Crea di Padova

Investimenti che per aziende di media entità come quelle del distretto della seta di Como sono troppo onerosi e che dunque necessitano di sostegni pubblici: «La produzione di seta ha un alto valore aggiunto, ed essendo depositaria di tutto il know how l’Italia ha una magnifica opportunità – prosegue Tamborini -. Peraltro oggi la seta è utilizzata anche da altre industrie, dalla cosmetica alla biomedicale a quella dei mangimi, con un alto grado di circolarità, e la bachicoltura potrebbe dare nuova linfa a zone agricole in difficoltà, come quella colpite dalla xylella in Puglia. Il Crea di Padova è l’ultima stazione di bachicoltura attiva in Europa, che ci rende depositari di tutto il know how sulla seta del continente. Ma è un vantaggio che sfruttiamo pochissimo. Lo stesso Crea ha rischiato di chiudere e per evitarlo come Ratti (l’azienda tessile comasca di cui Tamborini è ad, ndr) siamo intervenuti finanziandone progetti per due anni».

I battaglieri funzionari e ricercatori della stazione di Padova, ben consapevoli delle opportunità per la filiera agricola e industriale italiana, hanno da parte loro lanciato e sostenuto diversi corsi di formazione, convegni e progetti, come la rete Bachicoltura Setica, che coinvolge sette produttori in Veneto, dove una recente legge regionale ha finanziato per tre anni gli agricoltori che vogliono cimentarsi con gelsi e bachi.

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