Il mercato musicale mastica e sputa ogni giorno migliaia di nuove tracce. Eppure, la longevità di alcune canzoni è straordinaria oggi più che mai. Ci sono canzoni che, per merito interno, diventano “long seller” e abbiamo visto da poco un esempio. E poi, esistono le stagioni della discografia. Di anno in anno, le canzoni in gara a Sanremo (anche quelle di successo modesto) prosperano per settimane: passano dalle radio; fluttuano nei negozi di vestiti e profumi di tutt’Italia; spiccano nelle playlist suonate da ascoltatori forse un po’ distratti, forse genuinamente innamorati di 15 o 20 canzoni sanremesi alla volta – o magari nostalgici a marzo di quel che è successo a febbraio. Un mix di conformismo, pigrizia e sbadataggine contribuisce al successo enorme dei fenomeni musicali moderni – e le piattaforme streaming lo sanno meglio di noi. E possono prevedere le nostre abitudini stagionali.
Con l’arrivo del caldo è già ora di una nuova semina. A quel punto inizia la prolificissima stagione commerciale dell’estate: cercare “il” tormentone estivo è una vecchia storia, perché oggi i tormentoni che ce la fanno sono almeno una decina, ognuno destinato a tormentare una fetta di pubblico, almeno da maggio a settembre. E poi c’è una stagione più breve, quella delle canzoni di Natale, che non può competere con le lunghe maturazioni di Sanremo e dell’estate. In compenso, come un albero da frutto, ogni anno il Natale porge dagli stessi rami le stesse rassicuranti delizie: stiamo parlando di grossi assegni per le royalties, ovviamente.
A dirla tutta, anche questa stagione di raccolta (editoriale) si sta allungando. Sul blog “How Music Charts” di Chartmetric, strumento di analisi dei dati musicali popolarissimo tra gli addetti ai lavori, è stato preso in esame il ciclo di cali e picchi straordinari legati alle canzoni natalizie. I numeri dicono che al momento il Natale dura 59 giorni – qualcuno avvisi i datori di lavoro. Il motivo, forse, è che i negozi che sparano a ripetizione playlist stagionali cercano di convincere i passanti sempre con maggiore anticipo che è arrivato il momento di prepararsi agli acquisti. Così, ogni anno quest’ondata ritorna non solo sempre più in anticipo ma anche più intensamente oltre, se dobbiamo basarci sull’aumento verticale degli ascolti. L’autore della ricerca, Harry Levin, propone l’esempio di Mariah Carey, ormai considerata regina del Natale più che di ogni altra cosa: dal 2020 a oggi i suoi ascoltatori mensili sono aumentati sempre di più, ed è anche per questo che un anno fa mi azzardavo a prevedere che All I Want For Christmas Is You un giorno diventerà la canzone più streammata di sempre e che nessuna la potrà eguagliare mai. Al momento, per la cronaca, questa canzone incisa nel lontano 1994, si trova alle porte delle 100 canzoni più streammate di sempre con 2 miliardi e 55 milioni di riproduzioni su Spotify: la vetta sembra lontana ma il suo passo è da maratona e non da sprint, come ha dimostrato in questi 30 anni.
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Ma cosa rende così fortunate, longeve ed eterne le canzoni di Natale, mentre tutt’intorno la cultura pop cambia velocemente? Anche solo guardare le classifiche di 10 anni fa mostra uno scenario musicale completamente diverso dall’attuale. Com’è che la musica di Natale, invece, non invecchia mai e continua a seguirci, con un catalogo che anno dopo anno diventa sempre più nutrito di nuovi aspiranti classici?
Senz’altro, c’entra la longevità del Natale stesso, una festività che ha resistito ogni secolarizzazione, laicizzazione e modernizzazione della società. Anzi, più si va avanti (ammesso che questa sia la direzione), più aumenta il prestigio culturale del Natale. E, guardacaso, le canzoni natalizie più durature attingono direttamente da quella miniera di valori, simboli e significati che diventa sempre più ricca. Si può far risalire tutto all’anno zero della canzone pop natalizia, il 1941. Pearl Harbor era stata attaccata dall’esercito giapponese nemmeno 20 giorni primi, e a Natale il pubblico radiofonico sintonizzato sentì per la prima volta la popstar del momento, Bing Crosby, cantare per la prima volta White Christmas.
L’incertezza e lo smarrimento di quelle settimane venivano puntualmente recepite da una canzone che Irving Berlin aveva composto poco prima, ignaro del destino di guerra per gli americani, ma consapevole di quale fosse la posta in gioco di questa festa: la ricerca dell’innocenza, forse mai realmente esistita, ma certamente tangibile per i milioni di famiglie che si preparavano a salutare i loro cari, mandati al fronte. Il successo commerciale del singolo, pubblicato nel 1942 e ancora considerato da alcuni la canzone più venduta di sempre, fu importante ma quella non fu certo la prima carola anglofona ad avere una fattura musicale moderna (Santa Claus Is Coming To Town è del 1934, per esempio). Quello che fece, però, fu saldare l’industria della canzone sentimentale con questa festività e il suo racconto: così, già l’anno dopo, con I’ll Be Home For Christmas Bing Crosby infuse nelle liriche di Kim Gannon quella precisa combinazione di malinconia e speranza, desiderio e rimpianto, che avvertiamo tradizionalmente nel Natale, e che avrebbe influenzato gli 80 anni a venire di musica pop festiva.
Ma perché percepiamo il Natale in questo modo? Cosa ci fa sembrare “classico” questo approccio? Infatti, la formula è sempre quella, anche nelle canzoni più alternative: il Natale e la sua presunta abbondanza ti ricordano quello che non hai. Dal sogno di fuga di Fairytale of New York all’amore effimero di Last Christmas, fino alla disoccupazione di If We Make It Through December di Merle Haggard (resa popolare di nuovo quattro anni fa da Phoebe Bridgers), il Natale pop è definito principalmente da quello che non abbiamo, e che desideriamo. Ma non è un’invenzione della discografia moderna. Come sottolineato da John Storey nella raccolta di studi pubblicato dall’università di Edimburgo ”Christmas, Ideology and Popular Culture”, questi valori sono stati associati al Natale in un luogo e in un tempo ben precisi: l’Inghilterra vittoriana. Mentre l’impero britannico spingeva il ruggente motore industriale e coloniale per portare prosperità a una nutrita ma comunque limitata schiera di borghesi, nel frattempo costringeva i molti alla miseria; tutto questo contrastava con la moralità severa del periodo, improntata alla modestia, alla carità e alla pietà. Ed ecco che nel cuore del più feroce e precoce esempio di capitalismo moderno si andava a insinuare una contraddizione, tra la gratitudine cristiana per l’abbondanza e il senso di colpa per l’indigenza altrui, tra la rinascita dell’anno nuovo e un mondo umano lasciato indietro dal progresso. L’imposizione del Natale come festa nazionale, che bloccava i calendari della fabbrica, cementava anche l’irrisolvibile distanza tra i ritmi familiari sballati dalla rivoluzione industriale (specie nelle famiglie operaie) e il rituale di una festa associata da secoli a una sacra famiglia. Il Natale, in pratica, è diventato un enorme paradosso.
Queste descrizioni dickensiane possono sembrarci situazioni lontanissime, ma pensiamo un attimo ai milioni di persone che “scendono giù” per Natale ogni anno, vivendo in prima persona il distacco dalla città del lavoro e il ricongiungimento al luogo d’origine: le feste, per loro, sono perfettamente descritte da canzoni che si nutrono di simili contraddizioni. In tutto questo, il messaggio secolare delle canzoni pop natalizie non smette di avere senso, qualsiasi veste musicale gli si dia. Ed ecco perché arricchire il canone di nuovi brani è un modo piuttosto intelligente per arricchire sé stessi, e piano piano il catalogo continua a crescere sotto il peso di questa convenienza commerciale e attualità culturale. Che siano scritture originali, come Santa Tell Me di Ariana Grande, o reincisioni di vecchi classici, le canzoni che compongono playlist popolarissime come Christmas Hits su Spotify godono di una modesta ma non nulla rotazione ciclica.
Il Natale mischia il nuovo con il vecchio: come nell’EP natalizio Fruitcake pubblicato un anno fa da Sabrina Carpenter – prima dell’exploit di Espresso, insomma – e che contiene cinque brani nuovi e il classico dei classici, White Christmas. Tra gli originali, c’è anche la canzone che ha dato il nome al suo speciale natalizio su Netflix, A Nonsense Christmas. E non c’è forse prova migliore di come il “progetto natalizio” non sia da considerare l’ultima spiaggia di una carriera. Al contrario, una delle quattro/cinque popstar più popolari del pianeta, fresca di sei candidature ai Grammy Award (tra cui tutti e quattro i premi principali), approfitta del momento perfetto per gettare il suo nome nella riffa delle prossime regine del Natale. E lo fa dando nuova vita a un progetto che nel dicembre 2023 era arrivato in sordina, e che un anno dopo schizza al quarto posto della Billboard con un aumento delle vendite fisiche e streaming equivalenti del 1040% (no, non sono numeri a casaccio!).
Ancora una volta, l’unica maniera per sopravvivere in questa crudele era discografica è conoscere tutte le regole. Anche per le canzoni di Natale: se si vuole restare a lungo, bisogna raccogliere tutto lo struggimento della nostra innocenza perduta, tutto lo straniamento dell’interruzione delle routine, tutto il desiderio di quel che non si ha e il senso di colpa per quello che si ha, e lasciarli entrare non solo sulla superficie delle liriche, ma nella composizione del brano. Finché non sentiamo il magone, non è veramente Natale. Ma dall’altra parte, se va bene, ci sono i milioni.
Federico Pucci è un giornalista musicale. Ha collaborato con ANSA dal 2012 al 2019, occupandosi di spettacoli e cultura per la sede di Milano. Tra il 2020 e il 2023 ha diretto il magazine musicale online Louder, creando e producendo oltre 200 videointerviste e format originali. Nel 2019 ha scritto un libro sui sessant’anni di storia di Carosello Records. Ogni settimana pubblica una newsletter chiamata Pucci.