Lola Young

In questa rubrica ce ne occupiamo indirettamente (ma non li ignoriamo mai), eppure i testi delle canzoni sono ancora un importante veicolo di attaccamento a un brano. Anche quando c’è una barriera linguistica di mezzo. Anche quando le parole in questione, prese da sole, non sembrano nulla di speciale. Anzi, a volte le parole comuni sono più che sufficienti per volare di citazione in citazione, di TikTok in TikTok. Per esempio, se tu avessi sedici anni, oggi, quanto volentieri ti approprieresti del ritornello di Messy di Lola Young? Molto volentieri, lasciatelo dire. Ed è anche grazie a quei versi e al loro messaggio se oggi, dieci mesi dopo la sua uscita, la canzone sosta stabilmente ai piani alti delle classifiche radiofoniche, anche in Italia.

“Voglio essere me stessa: è vietato?” (“I want to be me, is that not allowed?”) sono parole che troverebbero posto in qualsiasi tipo di contesto. Di suo, il brano della giovane ed emergente popstar inglese descrive una relazione asimmetrica: i vizi e le mancanze del partner sono giustificabili; i difetti della nostra voce narrante, invece, no. Una dicotomia classica che, dietro il melodramma, nasconde una reale e fin troppo conosciuta disparità di trattamento per le donne. Tanto che canzoni di questo genere sono un classico, in Regno Unito e no: per restare in terra inglese, quindici anni fa risuonavano parole simili quando un’altra giovane ragazza prendeva il largo verso la notorietà sulle spalle di una canzone, vale a dire Kate Nash e la sua Foundations. Oggi quel ruolo spetta a Lola Young, e al suo brano che – nel frattempo – ha assunto ancora più rilevanza. Perché chiunque ci si vuole immedesimare.

Lola Young - Messy (Official Video)

In una società voyeuristica che invita tutti a condividere la propria vita, ma premia solo chi mostra sempre e solo il meglio di sé, chiunque può sentirsi assediato dai giudizi. Un pezzo come Messy (“casinista”) ha le carte in regola, dal punto di vista contenutistico, per trasformarsi in un inno: Young ha spiegato di essersi ispirata al miserevole stato di una sua recente relazione, e di aver approfittato dell’occasione per parlare del suo rapporto con l’ADHD, o disturbo da deficit di attenzione/iperattività.

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Certo, il fatto che a novembre la canzone abbia preso un’impennata di streaming graziealla reinterpretazione su TikTok da parte di un’influencer bellissima, magrissima, ricchissima, perfettissima ha qualcosa di strano e paradossale. Ma questi sono i tempi in cui viviamo: anche e soprattutto i numeri uno sembrano autorizzati a dipingersi come persone incomprese. Viceversa, con una voce affascinante ma non elegante, con una figura e un corpo non conformi allo standard che a lungo ha dominato la discografia pop, Lola Young non solo canta Messy, ma *è* Messy. Ed è in quest’adesione tra musica e cantautrice che si realizza la promessa che il brano ha intrecciato nelle sue parole e nella sua composizione.

Messy non è la prima canzone-sfogo che, grazie a TikTok, fa sbocciare una carriera musicale. Per un certo periodo, specie nel 2021, sembrava che su quel social non ci fosse spazio per altro se non le lettere ai pessimi ex fidanzati, da Driver’s License di Olivia Rodrigo a ABCDEFU di Gayle, ciascuna con il proprio approccio sonoro. Ma nessuna di queste aveva la semplicità di Messy, che fa parte del suo fascino e che ci inganna piacevolmente.

Semplice è prima di tutto la melodia di Messy, una successione di note facile da fare propria, come il messaggio che trasporta. Lola Young non estende il suo registro in maniera mostruosa; anzi, nella gran parte del brano a malapena copre un’ottava. Questo è un incentivo non da poco: se vuoi che il pubblico canti con te, rendiglielo semplice. Ma la semplicità di cui parliamo è ingannevole. Proprio perché non ci sono peripezie vocali, solo chi ha un timbro riconoscibile come quello di Lola Young potrebbe trasformare questa canzone in una hit: e questo particolare colore di voce, così chiaro ma anche così ruvido, semplicemente non si può fingere o comprare. Mentre ancora ci accapigliamo sull’autotune in cerca di un’inattingibile “verità” musicale, ecco che arriva come una benedizione la più vicina approssimazione a quel desiderio di genuinità e sincerità che, stranamente, andiamo a ricercare in una canzone pop.

Ovviamente, anche questa genuinità contiene un piccolo gioco di prestigio. Messy si muove lungo due accordi soltanto: un Re e un Mi, avanti e indietro, da capo a coda, con qualche estensione sulla settima maggiore per arricchire il buffet armonico e alzare la posta in gioco emotiva. Una posta in gioco che, però, non viene mai “vinta”. Nessuno di questi due accordi, infatti, siede al primo grado della tonalità del brano (La maggiore). E così, la canzone sembra non avere mai una risoluzione: non c’è modo di “curare” la condizione di “messiness” della voce narrante; ci si deve fare i conti, certo, ma si deve anche accettare per quello che è.

A differenza dei brani di Rodrigo e Gayle citati sopra, qui non si approda a nessun punto fermo: dopo averci accompagnato per mano lungo un’esposizione coerente e dinamica delle loro rimostranze, le canzoni delle due colleghe ci depositavano a una conclusione netta – tanti cari saluti e vai a ramengo, rispettivamente – comunicandolo con il testo ma anche con giri di accordi quadrati e solidi. Lola Young non fa così.

Messy contiene – com’è appropriato – una descrizione disordinata, istintiva dell’insoddisfazione della narratrice, elencando le ragioni quasi come stessimo assistendo in diretta al momento in cui sbucano nella mente dell’artista, per associazione di idee più che lungo un filo logico o cronologico. Questo fa assomigliare il brano a ciò che pretende di essere: un’esternazione liberatoria. Il piano lirico trasporta la sincerità delle motivazioni della narratrice anche grazie alla particolare struttura ritmica della melodia della strofa, fatta di scatti e pause, e grazie alle imperfezioni volutamente lasciate nel mix finale, come ha spiegato la stessa cantautrice.

L’altro elemento che ci porta saldamente dalla parte di Young è, appunto, la mancanza di un finale soddisfacente: nel ritornello, infatti, lo sfogo lascia spazio alla confessione, “io sono così e non ci posso fare molto”. La mancanza di una prospettiva armonica ci aiuta a credere a questa mancanza di prospettiva caratteriale: non c’è un altrove sul quale proiettare questo disagio, siamo costretti a conviverci, perfino a comprenderne l’unicità; allo stesso modo, non c’è una valvola di sfogo per gli accordi, bisogna non solo farseli piacere, ma imparare ad apprezzarli.

Lola Young

Il set-up di base – chitarra, basso, batteria, tastiera – è assolutamente classico e dona al brano quello charme da pop-soul anni ‘70 che è certamente parte del suo successo. Oltre a quest’impostazione, i produttori (e musicisti sulla traccia) Jared Solomon, William Brown e Conor Dickinson arricchiscono la base di tanti piccoli elementi, più o meno nascosti nel mix. L’invito è proprio a non andarsene, anzi a restare comodi in questo giro, e nulla come un bridge strumentale privo di assoli sembra suggerirci proprio quest’idea: ora una chitarra elettrica risonante di sapore country punteggia il ritmo; ora un synth riverberato emette un mugolo elettrico; ora una classica tastiera Roland Juno 106 viene fatta arpeggiare in maniera scintillante.

Qui e là si sente l’influenza di un sound non esattamente commerciale, quello del dream pop, genere dalla lunga e contorta storia transatlantica che non abbiamo il tempo per trattare (chi fosse interessato, può andare a recuperare Cocteau Twins; Slowdive; Mazzy Star; Beach House). Sempre più spesso questa influenza sonora si sta insinuando nel gusto del pop mainstream: per esempio si sente nel fortunatissimo album di Billie Eilish Hit Me Hard and Soft. Forse sta anche qui parte del successo di Messy, nel ricorso a una palette che si sta innestando nelle maglie del pop. E non solo per ragioni di moda, o per rievocazioni nostalgiche di qualche tipo: l’uso di queste tessiture sonore oniriche qui descrive una persona in trappola nella sua stessa testa.

Puoi sentire quest’incapacità di movimento nel circolo continuo degli accordi – più d’una canzone dream pop, del resto, oscilla senza soluzione in questa medesima maniera. L’ondeggiare del giro armonico sembra infinito, inevitabile, inesorabile come il preciso battito della strumentale. Il ritmo è serrato, battuto con morbidezza, ma impossibile da aprire con uno swing: non c’è modo di tenere a bada i pensieri nella testa della narratrice, perché stanno seguendo la loro tangente. Solo l’arrivo del ritornello scioglie leggermente le maglie della batteria. Consapevoli della possibile piattezza armonica del brano, i produttori danno slancio al ritornello non inserendo un nuovo accordo, ma con un crescendo degli strumenti in questa fase cruciale del brano che conduce all’inciso, promettendo una qualche forma di appagamento.

Ma “pestare” sugli strumenti, alla vecchia, non sarebbe sufficiente per soddisfare l’orecchio odierno, che crede di desiderare “autenticità” ma non sa veramente cosa vuole, e forse percepirebbe come scarne produzioni davvero vintage. E quindi, ecco che la voce di Young viene moltiplicata a partire dal pre-ritornello in decine di sovraincisioni, creando unisoni e armonie che arricchiscono il pasto per l’orecchio, un ritornello dopo l’altro. Un ritornello dopo l’altro cresce anche l’intensità dell’interpretazione della cantante. L’inglese improvvisa, osa, spezza le barriere del suo registro con qualche rapido acuto, secondo la più classica delle regole del songwriting e della produzione: dare il tutto per tutto sul finale. In una canzone che non va mai da nessuna parte, un ritornello così non scioglie davvero la tensione. Ma di volta in volta, ci sembra sempre più come un’epifania. “Sono incasinata”, dice Lola Young, e non c’è molto altro da aggiungere. Nelle nostre vite più o meno disordinate, anche da questa parte della Manica, capiamo benissimo questa sensazione, e non possiamo far altro che condividere.

Federico Pucci è un giornalista musicale. Ha collaborato con ANSA dal 2012 al 2019, occupandosi di spettacoli e cultura per la sede di Milano. Tra il 2020 e il 2023 ha diretto il magazine musicale online Louder, creando e producendo oltre 200 videointerviste e format originali. Nel 2019 ha scritto un libro sui sessant’anni di storia di Carosello Records. Ogni settimana pubblica una newsletter chiamata Pucci.

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