Non è propriamente un’escalation, una progressione strategica definita, uno scenario bellico calcolato. Quando in un conflitto tornano le mine antiuomo, bandite dalla convenzione di Ottawa nel 1997 – trattato che ne vieta l’uso, la detenzione, la produzione e il trasferimento, imponendo la distruzione degli stock esistenti e l’assistenza alle vittime – vuol dire che è guerra totale, senza regole, senza più diplomazie. E che la decisione di Zelensky di ritirare Kiev dalla convenzione, un documento firmato da 133 Paesi, fra i quali non figurano però Cina, Russia e Stati Uniti d’America (in tutto mancano la firme di 32 Stati), «ci spinge sull’orlo dell’abisso. Vuol dire che l’obiettivo dichiarato ora sono i civili mentre saltano in aria case, scuole, ospedali, infrastrutture».
Le mine secondo Alfieri Fontana
Vito Alfieri Fontana è stato uno dei principali produttori di mine antiuomo quando l’Italia era fra i primi esportatori di questi congegni esplosivi in tutto il mondo. Negli anni ’80, la Tecnovar Italiana di Bari era una delle aziende più produttive del settore. L’aveva fondata 30 anni prima l’ingegnere Ludovico Fontana, suo padre. Per circa vent’anni l’ex imprenditore progetta, costruisce e vende più di due milioni di mine antiuomo ai governi di mezzo mondo. Ma poi diventa padre e si ravvede, come racconta nel libro “Ero l’uomo della guerra” (editori Laterza). Da produttore di armi diventa sminatore. Parte per i Balcani, ripristinando abitazioni, scuole, fabbriche, terreni agricoli, acquedotti e stazioni ferroviarie.
I costi degli ordigni e dello sminamento
«Il conflitto tra Russia e Ucraina mi ricorda quello tra Iran e Iraq, una guerra di posizione, dove a dividere i due eserciti, anche durante la tregua, c’era il più grande campo minato della storia – racconta Alfieri Fontana – decine di milioni di ordigni mai bonificati. E più o meno la stessa cosa accadeva in Bosnia. A separare i croato-musulmani dai serbi c’erano migliaia di campi minati. Nessuno ne calcola prima i costi umani ed economici, e le conseguenze devastanti sui pozzi, i sottoservizi, tutte le infrastrutture e le attività».
Nicoletta Dentico e la prima campagna contro le mine antiuomo
Prima il Kosovo, poi Belgrado, infine Sarajevo: se Vito Alfieri Fontana è diventato alla fine degli anni ’90 collaudatore di progetti di sminamento alle dipendenze della cooperazione italiana lo deve non solo al fondatore di Emergency Gino Strada o a don Torino Bello – prete, parroco, scrittore di origini salentine, che da vescovo della diocesi di Molfetta è diventato un potente simbolo di pace –, ma soprattutto a Nicoletta Dentico: giornalista, scrittrice, esperta di salute globale e diritti umani, è stata una delle responsabili italiane della campagna internazionale per la messa al bando delle mine antipersona. E sta proseguendo il suo impegno come attivista della pace integrale. Fu lei a spingere Alfieri Fontana non solo ad abbandonare la produzione delle armi ma a trasformarsi in uno sminatore. «Fu un vero e proprio cammino di conversione durante il quale l’uomo mise a nostra disposizione anche le sue competenze tecniche per disegnare la legge sulla messa al bando delle mine in Italia», ricorda Dentico.
Un tempo senza freni e senza regole
«Non sappiamo più come gestire la situazione. Spesso negoziati di anni svaniscono in poche ore, e si va affermando una diplomazia asimmetrica, fondata su potere, soldi e tecnologie. Eppure c’è tanto mondo che crede ancora nelle relazioni internazionali e nel multilateralismo – afferma l’attivista che, spesso, si è recata di persona in diversi teatri di guerra, dalla Cambogia ai Balcani, all’Afghanistan, dal Mozambico al Sudan -. Ora è un altro tempo, senza freni, perché la politica ha fatto propria la logica finanziaria ed economicista della globalizzazione, quella della deregulation, dell’assenza di qualunque regole».