Varcare la porta dello Studio Ovale prima che scattino i nuovi dazi anti-europei: questo è l’obiettivo. E bisogna farlo in fretta, entro fine marzo, la prossima settimana. Perché dopo, dicono con un’alzata di spalle anche chi le sta vicino, “che ci va a fare?”. Il viaggio di Giorgia Meloni a Washington, il primo bilaterale con Donald Trump dopo il suo ritorno alla Casa Bianca, è da mesi nell’aria. Se ne parlava già prima che la premier italiana atterrasse per l’Inauguration Day, quando Trump si divertiva a scompaginare il protocollo e i suoi ospiti. E se ne parla ancora adesso, con un’urgenza crescente.

Meloni punta a fare da ponte tra Usa ed Europa ma l’imprevedibilità di Trump mette a rischio la strategia

Questa visita, però, non può esaurirsi in due fotografie da incorniciare e le parole benevole nei confronti della leader italiana. Meloni non può permetterselo. La premier ha bisogno di risultati da sventolare a Bruxelles e a Roma, qualcosa che riscatti il ruolo di ponte tra Europa e America che sembrava cucito su di lei e che invece, negli ultimi mesi, si è sfilacciato sotto i colpi dell’imprevedibilità trumpiana. Un ruolo che si è complicato con l’inversione a U di Washington sulla guerra in Ucraina, dove la nuova amministrazione ha sbattuto la porta in faccia all’Europa e lasciato Zelensky alle prese con il nuovo corso statunitense. Del resto: lo stesso Trump ha ammesso candidamente di trovarsi più a suo agio con lo Vladimir Putin che con il presidente ucraino, che ha liquidato con un trattamento brutale nel suo primo incontro alla Casa Bianca. Frasi e atteggiamenti che hanno lasciato spiazzati perfino i suoi più fedeli ammiratori, Meloni compresa.

Vitale il legame con il presidente Usa

Ma proprio per questo, per Giorgia Meloni, il legame con Trump è vitale. In Europa, deve destreggiarsi tra il rinnovato interventismo anglo-francese di Keir Starmer e Emmanuel Macron (unici in Europa dotati armamenti nucleri e ad avere un posto fisso al Consiglio di sicurezza) e il piano di riarmo da 800 miliardi di Ursula von der Leyen (sostenuto da tutti, a partire dalla Germania di Friedrich Merz). Il paradosso è che proprio chi come l’italia – Meloni in testa -da anni chiedeva di escludere le spese militari dai vincoli di bilancio ora si ritrova a contestare un’Europa che si indebita per la difesa. E mentre la leader di Fdi si arrovella, il suo alleato-nemico Matteo Salvini la scavalca e cavalca il malcontento gridando: “Mai debito per comprare armi!”. Il leader della Lega sogna di diventare il principale interlocutore di Trump (e di Elon Musk), dimenticando che proprio il Tycoon ha spinto la NATO a chiedere più soldi per la difesa, ha minacciato di uscire dall’Alleanza e ha dichiarato obsoleto perfino il vecchio tetto del 2% del PIL per la spesa militare. L’Italia, che neppure quel limite ha raggiunto, a giugno dovrà fare i conti con un aumento dell’asticella di almeno un punto.

Lo spettro della guerra commerciale

E poi c’è la mina più grossa: la guerra commerciale. I dazi annunciati da Trump sarebbero un colpo durissimo per un Paese esportatore come l’Italia. Non solo per i rapporti diretti con gli Stati Uniti, ma anche per l’effetto domino che si abbatterebbe sugli altri partner europei, a cominciare dalla Germania, primo cliente di Roma, seguita (a distanza) dalla Francia. Già oggi l’industria italiana sconta il peso della recessione tedesca e il calo della produzione. Un’ulteriore stretta americana rischierebbe di soffocarla.

Questo è il quadro con cui Meloni deve fare i conti. Perciò, se va a Washington, dovrà tornare con qualcosa in mano. Qualcosa di concreto, da rivendere agli alleati interni e ai partner europei. Altrimenti, meglio lasciar perdere. Meglio evitare il viaggio.

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