Subito dopo l’ok alla fusione, la nuova proprietà ha ridisegnato la linea editoriale di CBS News. Bari Weiss, giornalista e podcaster divenuta celebre per le sue critiche al “woke progressista” e per una visione più conservatrice su Israele, campus universitari e cultura digitale, è stata nominata editor-in-chief. Sotto la sua guida, la redazione è stata ristrutturata: via diversi programmi e progetti su DEI (Diversity, Equity and Inclusion) e clima, dentro nuovi format più vicini al linguaggio dei podcast e dell’opinionismo, tagli ai corrispondenti da aree sensibili come Gaza e ridimensionamento di alcune figure legate ai movimenti sociali. CBS sembrava avviata verso un riposizionamento che avrebbe dovuto rassicurare la Casa Bianca. Eppure, la rete è finita comunque nella top 3 dei media “offender”. Perché non esistono alleati strutturali: basta una settimana di titoli sbagliati o una storia che irrita il presidente per essere appesi al muro.
Trump e i suoi portavoce presentano l’iniziativa come una semplice risposta al «pregiudizio sistemico» della stampa. Citano sondaggi Gallup che certificano una fiducia ai minimi storici nei confronti dei media tradizionali e studi del Media Research Center secondo cui, nei primi mesi del 2025, la copertura del presidente sulle grandi reti generaliste è stata negativa per oltre il 90% del tempo. In questa narrazione, la pagina Media Bias sarebbe una forma di autodifesa: se la stampa colpisce, la Casa Bianca ha il diritto di reagire, documentare e controbattere.
I timori di associazioni come ACLU, Freedom of the Press Foundation ruotano attorno allo squilibrio: un conto è il confronto duro, anche aggressivo, tra leader politico e media; un altro è la costruzione di una lista nera curata dall’esecutivo. Il rischio maggiore non è che il Washington Post, CBS o il New York Times smettano di criticare Trump, visto che hanno mezzi economici e strumenti legali per difendersi. Il pericolo vero è l’effetto su chi è più vulnerabile (reporter locali, freelance, piccole testate) che vedono un collega finire nella Hall of Shame e “imparano la lezione”. È il cosiddetto “chilling effect”: non serve censurare, basta far capire che l’attenzione del potere può diventare personale. Una minaccia implicita che si somma quella esplicita degli insulti personali – dal «stupid person» al «Quiet, piggy» – lanciati davanti alle telecamere.
Poi c’è il modo in cui il sito si innesta nella macchina più ampia della comunicazione politica di Trump. Le schede della pagina Media Bias non restano chiuse in un angolo di whitehouse.gov, vengono rilanciate su X, su Truth Social, nelle mailing list di raccolta fondi e nei podcast di commentatori vicini alla Casa Bianca. Diventano la griglia di lettura per intere comunità politiche, alimentando micro-campagne mirate contro singoli giornalisti, utilizzate per sostenere boicottaggi, pressioni sugli inserzionisti e proteste coordinate.
La selezione stessa dei “colpevoli” rivela la logica politica alla base dello strumento. Nella Hall of Shame compaiono testate tradizionalmente ostili a Trump, come il Washington Post – da anni nel mirino per il suo fact-checking serrato sulle dichiarazioni del presidente – e MSNBC, accusata di «isteria» sulla sua agenda economica e, in particolare, sul piano da 500 miliardi di dollari per l’infrastruttura di intelligenza artificiale nazionale, il progetto Stargate. Ma non mancano media in teoria più “vicini”: alcune sezioni del Wall Street Journal, per esempio, colpevoli di aver approfondito i legami di Trump con Jeffrey Epstein, spuntano ai margini della classifica; altre vengono risparmiate. L’assenza di figure che pure sono oggetto di attacchi furiosi sui social, come il conduttore di ABC Jimmy Kimmel, suggerisce che le scelte non siano soltanto reattive ma calibrate. In altre parole, colpire dove conviene, risparmiare dove serve ancora un canale di comunicazione o dove lo scontro potrebbe costare troppo in termini economici e regolatori.
