Il primo fondo comune di diritto italiano, lanciato il 20 giugno 1984, era un semplice prodotto obbligazionario. Da allora sono passati 40 anni e nel tempo, con alterne fortune, l’offerta di fondi comuni a disposizione dei risparmiatori italiani è via via aumentata fino a oltrepassare i 20mila fondi, fino ad arrivare a 57.525 con le varie classi dello stesso prodotto presenti nella gamma di offerta delle società di gestione.

In particolare l’industria del risparmio gestito tricolore ha vissuto una profonda trasformazione negli ultimi 20 anni, dopo aver raggiunto la sua massima espansione all’inizio del nuovo millennio. All’epoca, con una domanda in picchiata, i gestori hanno risposto con nuovi prodotti, che non sempre conservano, ancora oggi, semplicità e trasparenza. Un’innovazione dettata anche dalla necessità di coccolarsi i collocatori, a cui vengono girate la quasi totalità delle commissioni incassate, e non da reali esigenze degli investitori.

Il trend in atto negli ultimi anni ha portato sugli scudi i fondi comuni con una scadenza predefinita, che consentono ai distributori di incassare tutto e subito, ovvero percepire in anticipo le commissioni (che viaggiano tra il 3 e il 5%) al momento del collocamento. Prima ancora di partire con l’attività di gestione. Inoltre la prevista commissione di uscita a carico dei singoli partecipanti, in caso di uscita anticipata dall’investimento, potrebbe spingere l’intermediario a spostare anzitempo i clienti da un fondo a scadenza all’altro per guadagnare più commissioni.

Un potenziale effetto distorsivo su prodotti che sono venduti facilmente proponendo al cliente qualcosa di simile a un BTp, che spesso promette anche un allettante flusso cedolare per un certo numero di anni.

Ma se la cedola che il fondo “garantisce” è superiore al risultato conseguito dal gestore, alla scadenza il sottoscrittore conseguirà comunque una perdita. E le cedole incassate non sono frutto dei rendimenti ottenuti, ma semplice rimborso del capitale investito dal sottoscrittore.+

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