Storie Web giovedì, Novembre 13
Notiziario

A fronte della difficoltà dell’Unione europea (Ue) a decidere, il dibattitto sul voto all’unanimità è diventato centrale. E’ il vincolo dell’unanimità che impedisce all’Ue di avere una posizione condivisa nel conflitto palestinese-israeliano oppure nell’utilizzo delle attività della Banca centrale russa depositate in Belgio per aiutare l’Ucraina. Naturalmente, non mancano i difensori dell’unanimismo. Per i leader nazionalisti (come la nostra premier), il voto all’unanimità è un principio sacro in quanto protegge la sovranità nazionale. Oppure, per i benaltristi, la regola dell’unanimità non conta, in quanto contano le volontà politiche dei principali governi nazionali. In realtà, non solamente la regola dell’unanimismo conta, ma la sua persistenza indebolisce l’Ue. Se riformarla è necessario, tuttavia non è sufficiente.

Per i Trattati, l’Ue adotta procedure decisionali diverse relativamente a politiche pubbliche diverse. Nelle politiche regolatorie del mercato singolo (che hanno la loro origine nei Trattati di Roma del 1957, poi organizzate come primo pilastro nel Trattato di Maastricht del 1992), funziona un triangolo decisionale che non prevede l’unanimità. La Commissione europea avanza proposte di legge (direttive e regolamenti), che dovranno essere approvate o rifiutate dal Consiglio dei ministri (degli stati membri) che vota a maggioranza qualificata e dal Parlamento europeo che vota a maggioranza semplice. La maggioranza qualificata è tale se ottiene il voto del 55 per cento almeno dei membri del Consiglio, i cui stati membri debbono rappresentare almeno il 65 per cento della popolazione totale dell’Ue. Tale processo decisionale è definito come procedura legislativa ordinaria. Tuttavia, con il Trattato di Maastricht del 1992 (nel suo secondo pilastro), sono entrate nell’agenda europea politiche che fino ad allora erano rimaste a livello nazionale, come sicurezza, difesa, esteri, asilo politico, fiscalità. Politiche spesso definite come strategiche. E’ nelle politiche strategiche, in cui la decisione è monopolizzata dalle istituzioni intergovernative (in particolare dal Consiglio europeo dei ventisette capi di governo), che si decide all’unanimità. I pilastri sono stati aboliti dal Trattato di Lisbona del 2009 (quello in vigore), ma la differenziazione decisionale è rimasta. Mentre nelle politiche di mercato ci sono istituzioni che si bilanciano, nelle politiche strategiche non c’è alcun bilanciamento nei confronti del Consiglio europeo, al livello in cui esso opera. Le decisioni hanno una natura politica, raramente legale, così da escludere il Parlamento europeo dal processo decisionale e la Corte europea di giustizia dalla supervisione delle decisioni prese, con la Commissione europea ridotta ad esercitare il ruolo di segretariato dei governi. Mentre le politiche di mercato funzionano (con i limiti indicati da Enrico Letta), sono le politiche strategiche (a cui si riferisce Mario Draghi) che non funzionano.

Non funzionano perché, mentre nelle politiche regolatorie del mercato l’integrazione procede attraverso la legislazione, nelle politiche strategiche essa procede (se procede) attraverso il coordinamento volontario tra i governi nazionali. Così, ogni governo nazionale può opporre il proprio veto, se ritiene che una decisione possa mettere in discussione la sovranità del suo Paese. Per alcuni, l’estensione del voto a maggioranza qualificata potrebbe rivelarsi addirittura pericolosa, in quanto usabile domani da un blocco maggioritario di leader nazionalisti per fare retrocedere il processo integrativo nel suo complesso. Invece di eliminare l’unanimità, aggiungono, perché non continuare ad utilizzare le possibilità previste dai Trattati per neutralizzare i poteri di veto? Come si è fatto con le Cooperazioni rafforzate (Art. 20 del TUE e Art. 326-334 del TFUE) oppure con la Cooperazione strutturata permanente (PESCO) (Art. 42 e 46 del TUE). Nel primo caso, alcuni governi si sono messi insieme con successo per promuovere programmi comuni, però di bassa salienza politica (da ultimo, la Procura europea). Nel secondo caso, invece, il tentativo di alcuni governi di avanzare nella politica di sicurezza non ha avuto successo, in quanto ben 26 su 27 stati membri vi hanno aderito, con l’esito di riprodurre al suo interno la logica dei veti che ne aveva giustificato la formazione. Se si vuole prendere decisioni nelle politiche strategiche, è difficile farlo senza uscire dalla trappola dell’unanimità protetta dai Trattati. Occorre superare il principio del coordinamento volontario che ispira quelle politiche, ma soprattutto occorre liberarle dal monopolio decisionale dei governi nazionali. Il voto di maggioranza qualificata serve se le politiche strategiche sono decise in un triangolo istituzionale in cui i governi nazionali sono bilanciati dal Parlamento europeo e dalla Commissione europea. Poiché tale riforma è irrealistica per i poteri veto che i Trattati prevedono, occorre uscire da questi ultimi, creando organismi (come la Comunità europea della difesa) che funzionino sulla base di controlli e bilanciamenti. Efficienza, ma anche democrazia.

Insomma, nelle politiche strategiche, l’introduzione del voto a maggioranza qualificata è necessaria, ma non sufficiente, se la decisione continuerà ad essere controllata dai governi nazionali. La riforma va accompagnata da un cambiamento istituzionale che renda legittimo il loro processo decisionale.

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