Strada non condivisibile quella seguita dagli Usa, ma che ad ogni modo è orientata al protezionismo industriale, «perché hanno capito che senza industria un Paese perde autonomia, ricchezza, competenze e libertà».

Lezione che l’Europa «sembra avere dimenticato, lasciando che interi settori venissero delocalizzati e caricando le imprese di burocrazia, vincoli ambientali spesso ideologici e tecnologicamente non sostenibili».

«I primi dazi che oggi frenano l’Europa – scandisce Ferraroni – ce li siamo autointrodotti» e un esempio è rappresentato dall’auto Ue, «cronaca di una morte annunciata» alla luce dell’addio al motore endotermico, con l’aggravio dei carbon credit acquistati altrove, pagamenti a Tesla e ai produttori cinesi, «tassa nata per difendere l’Europa che oggi la penalizza e premia chi inquina altrove».

Molti – spiega – chiedono che l’Europa vada ridisegnata, finanche rifondata. «Ma rifondare – spiega – non significa demolire». I cantieri da aprire sono principalmente tre: una riforma delle istituzioni per superare i poteri di veto dei singoli stati e ridurre la produzione normativa, una nuova potente politica economica e un sostegno forte all’industria, da rimettere al centro anche attraverso una nuova politica energetica.

«Se non faremo le riforme opportune non saranno i dazi di Trump a causare le delocalizzazioni delle imprese , lo saranno gli errori e i limiti della nostra Europa».

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