In lavorazione, tra il ministero della Salute e le Regioni, c’è una riforma dei medici di base che potrebbe portarli a diventare dipendenti del Ssn, e non più liberi professionisti. Dovrebbero lavorare nelle nuove Case della comunità, e non più in studi privati. Ecco le principali novità.

Nei prossimi anni, i medici di famiglia potrebbero cambiare: una riforma che sarebbe allo studio del ministero della Salute e di varie amministrazioni regionali avrebbe l’obiettivo di trasformarli in dipendenti del Servizio sanitario nazionale, e trasferirli dagli studi privati nelle Case della comunità e le altre strutture dedicate alla sanità territoriale. Il testo per il momento non è ancora definito, ma l’obiettivo complessivo sarebbe quello di far sparire, con il tempo, i medici di base liberi professionisti.

Oggi, per la maggior parte, le Case della comunità non sono ancora operative. Ce ne sono circa 400, mentre stando agli obiettivi del Pnrr entro la metà del 2026 dovranno diventare più di 1.400. Soprattutto, al momento scarseggia il personale medico al loro interno – anche a causa della generale carenza di medici e infermieri in Italia. Dunque la riforma, anticipata dal Sole 24 Ore, potrebbe contribuire a risolvere anche questo problema.

Attualmente, i medici di base sono liberi professionisti con un proprio studio, e che stipulano con il Ssn una convenzione. In questo modo si impegnano a gestire i propri ambulatori e a prendere in carico i pazienti. Il numero massimo di pazienti dovrebbe essere di 1.500, ma in pratica si arriva a 1.800 persone per ciascun medico, in media.

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Nel nuovo sistema che per adesso è ancora alle fasi iniziali di stesura, invece, i medici dovrebbero diventare dipendenti del Servizio sanitario nazionale. Per quanto riguarda la sede di lavoro, dovrebbero essere assegnati soprattutto alle Case e agli Ospedali di comunità, o anche alle Centrali operative territoriali (Cot) e nei distretti. Diventando dipendenti – è l’idea alla base – dovrebbe essere più semplice gestire il personale a disposizione per la sanità territoriale.

In ogni caso, il cambiamento non sarebbe obbligatorio per tutti i medici. I nuovi specializzati, quindi chi entra nella professione dopo l’avvio della riforma, sarebbero automaticamente dipendenti. Invece chi è già in attività come libero professionista potrebbe scegliere di rimanerlo. Ma sarebbe comunque obbligato a fornire un servizio alla sanità territoriale per un certo numero di ore a settimana. Per quanto riguarda le specializzazioni, la formazione specialistica dovrebbe diventare universitaria, e non più gestita dalle Regioni.

Come detto, per adesso la riforma non è ancora definita nei dettagli. Le amministrazioni regionali impegnate nella stesura sono principalmente Friuli-Venezia Giulia, Lazio, Emilia-Romagna e Veneto. Già a settembre il ministro della Salute Orazio Schillaci aveva detto, riferendosi ai medici di base: “Devono dare un contributo effettivo orario nell’ambito del Servizio sanitario nazionale, e ciò all’interno delle strutture che saranno deputate ad erogare la medicina territoriale. Senza entrare nel merito della tipologia del contratto, anche se per molti presidenti di Regione i medici di medicina generale dovrebbero diventare dipendenti del Servizio sanitario nazionale, ritengo indispensabile che i medici di base lavorino un determinato numero di ore assicurando quel lavoro all’interno delle Case di comunità”.

Le Case di comunità dovranno essere 1.430 entro la metà del 2026. Al momento, stando a quanto riportato da Agenas (Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali), quelle operative sono 413, in undici Regioni. Tuttavia, a mancare sono soprattutto i medici. In 120 Case non ci sono medici di assistenza primaria, in 137 non è prevista la presenza di pediatri.

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