Il frontman dei 99 Posse racconta la sua avventurosa vita e carriera in un libro che contiene oltre 40 anni di musica e lotta politica nel nostro paese: “Ricordo quegli anni come un film, passavamo dai sit in dove volevano arrestarci agli MTV Day davanti a 20mila persone”. Nel 2002 lo scioglimento e poi la reunion: “Non abbiamo cambiato il mondo, ma il mondo non ci ha cambiati”.

È un viaggio intensissimo pieno di aneddoti, episodi, circostanze, che si succedono in alcune fasi alle velocità della luca, “Vocazione rivoluzionaria” la biografia di Luca Persico, o’Zulù dei 99 Posse. Un viaggio che attraversa più di 40 anni, dalla fine degli anni ottanta fino ad oggi, passando per periodi storici che hanno segnato non solo la musica ma anche la cultura, la cronaca e la politica italiana. Difficile parlare della storia di Zulù se non a cominciare dal percorso politico che lo ha poi portato alla musica con la fondazione dei 99 Posse, dopo l’occupazione del centro sociale Officina 99 a Napoli. Dal 1993, “Curre curre guagliò” rientra nelle playlist di ogni mobilitazione della sinistra extraparlamentare italiana, attraversando piazze e movimenti, così come ha fatto Zulù. Ma è anche un libro dove la parte più intima viene fuori in maniera importante: la crisi dopo i fatti di Genova con il G8 del 2001, lo stop ai 99 Posse, poi l’alcol e le droghe. Fino ad una nuova luce, una rinascita con l’incontro con Stefania, che sarebbe poi diventata “la signora Zulù”, la nascita del figlio Raul, la reunion dei 99 Posse, in un tempo in cui parole, suoni e valori sembravano essere drammaticamente cambiati. Un testo che è anche la storia di un conflitto, quello tra Luca e o’Zulù, tra l’immagine di te costruita dal pubblico a cui costantemente viene chiesta coerenza e quello che si è davvero, per indole e per natura. Un viaggio avvincente dove si passa dalla facoltà di Lettere e filosofia dell’università Federico II di Napoli al Chiapas, da Marcos ad Arafat, dall’Iraq al Kurdistan, fino alle montagne dell’Irpinia.

Luca il tuo libro inizia dalla fase della pre adolescenza, tu vivi la Napoli del post terremoto fino allo scoppio del movimento studentesco all’inizio degli anni ’90, è lì che nasce Zulù?

Zulù è un misto di esperienze, per questo ho voluto far nascere la storia proprio da quando sono nato, le esperienze a scuola, molto formative prima ancora che quelle all’università. Tecnicamente però il nome “O’Zulù” nasce da quando mi ci hanno chiamato per la prima volta così. Io ero un metallaro e un capellone, giravo con i jeans strappati pieni di scritte con messaggi, tutte fatte con i pennarelli, ero un tipo abbastanza strano. Così capitava spesso che mentre raggiungevo il centro di Napoli dall’area nord, da Giugliano, in pullman mi chiamassero in svariati e coloriti modi. “Mi sembri uno Zulù”, “Ma chi sei uno Zulù”, il nome Zulù era il più ricorrente. Mi rimase impresso perché la cosa non mi dava fastidio, mi dava anzi fastidio che quelle persone intendessero il termine Zulù come offensivo.

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Nel libro dall’uscita di “Curre curre guagliò” fino alla firma del contratto con una grande multinazionale discografica, sembra una corsa a perdifiato tra fatti, aneddoti, avventure. Ci parli di quegli anni?

Il periodo che hai citato fu sicuramente il più frenetico tra tutti. E’ stato il periodo di massima esposizione mediatica ed anche, verso la fine, di maggiore interazione tra noi e i movimenti, e l’esposizione mediatica era al culmine delle sue potenzialità. Per cui mi è capitato di vivere alcune parti della mia vita come se fossero un film. Ci capitava di stare ad un sit in dove la polizia ci voleva arrestare, aveva puntato proprio noi, ci seguiva, quindi noi dovevamo seminarli, per poi prendere un taxi che ci portava all’MTV day dove c’erano 20 mila persone ad aspettarci. Vivevamo così, ed era così quasi tutti i giorni. Io molti episodi li avevo anche dimenticati, mi è capitato di tornare spesso indietro nella scrittura del libro perché avevo dimenticato delle cose, tanto che mi chiedevo: ma ti puoi mai essere dimenticato di aver incontrato Yasser Arafat? Sì, io me l’ero dimenticato, me ne sono ricordato guardando la foto che ho a casa dove ci siamo io e Arafat che ci scambiato il bacetto. Non ci è quasi mai capitato in quegli anni di affrontare un momento di grossa visibilità mediatica per promuovere solo il nostro disco e basta. Avevamo sempre una battaglia o una causa a cui stavano lavorando i nostri compagni e compagne, ed abbiamo sempre usato quelle interviste per veicolare messaggi politici.

C’è un punto di picco in questa storia, che è il disco “La via que vendrà”, che ha un successo enorme, che coincide con il picco massimo del movimento noglobal e il G8 di Genova

Ci siamo spesi molto per Genova, approfittavamo di ogni intervista per parlare di Genova e delle manifestazioni contro il G8. E ne abbiamo fatte tantissime.

Parliamo di un gruppo che in quegli anni faceva qualcosa come 200 concerti all’anno, numeri incredibili 

Il disco andava benissimo, il tour andava ancora meglio del disco. Ma la vicenda di Genova, l’esito di Genova, il modo in cui è finita, il modo in cui non siamo stati capaci di fare fronte comune rispetto a quello che era successo, ma anzi, il modo in cui ci siamo frammentati dopo quella grande batosta che tutti abbiamo avuto, ognuno nel suo campo, tutto questo ha reso troppo complicato continuare a gestire la Posse come avevamo fatto fino a quel momento.

Nel 2002, l’anno dopo, si interrompe l’esperienza dei 99 Posse, e si amplifica lo scontro tra Luca e o’Zulù, che tipo di scontro era?

Io mi sono sempre considerato più vicino a John Belusci piuttosto che a Che Guevara, se proprio volessi dire a chi mi sento simile, quindi il fatto di essere considerato addirittura più integerrimo e intransigente di Che Guevara, da tanti, che forse conoscevano poco di Che Guevara ma sicuramente conoscevano pochissimo di me, diventava pesante. Questa roba era un peso, ti si dipinge come un altro e poi dopo continuamente ti si dice che non sei coerente con te stesso perché non corrispondi all’immagine che loro hanno dipinto di te. Non sostenevo più questa situazione, provavo fastidio per tutti e dovevo liberarmi, anche al prezzo di chiudere i 99 Posse all’apice del successo. Poi ho fatto la cazzata che fanno tutti gli esseri umani quando si sentono fragili, Cercano l’oblio e lo cercano nell’alcol o nella droga, io l’ho trovato ampiamente in tutti e due. Però non credo di esserci cascato, come spesso si usa dire, piuttosto credo proprio di essermi tuffato dentro. Il mio legame con la musica c’era sempre, anche il mostrare su un palco come Zulù si stava distruggendo, faceva parte dello show. Avevo deciso di suicidarmi ma non potevo pensare altro che farlo su un palco.

Poi arriva una luce, conosci Stefania e poi nasce Raul, è una rinascita completa

Prima di tutto ho trovato una compagna di viaggio che mi ha compreso nel profondo. Lei amava sicuramente Zulù, ma amava anche Luca, amava ogni singolo taglio che si era auto inferto o che gli avevano procurato. Ritrovo un senso alle cose, e così ritornano anche i 99 Posse, ma con quel quid in più, rispetto a prima. Noi siamo tornati il giorno stesso che ci siamo rincontrati, e siamo tornati perché finalmente c’erano di nuovo le condizioni per essere quello che volevamo essere quando era iniziato questo viaggio.

Un viaggio che ti ha portato a conoscere Marcos e Arafat, dall’Iraq al Kurdistan, cosa resta di quel mondo, e soprattutto dove vedi tu oggi quel fuoco, nel mondo di oggi?

Noi volevamo costruire un mondo diverso, e diciamo che in questo tentativo abbiamo fallito, ma fallendo nel tentativo di cambiare il mondo abbiamo comunque contribuito a cambiare degli aspetti culturali del nostro paese. E questo rimanendo le persone che siamo, con il loro passato, che rivendicano, esprimendo le proprie opinioni dentro i bar, tanto da fare in modo che oggi nei bar non ci siano solo le opinioni della gente di merda ma anche le nostre. I 99 Posse sono stati un fatto unico, completamente diverso da quello che c’era stato fino ad allora e sostanzialmente diverso da quello che c’è stato dopo. A noi ci hanno quasi costretto a firmare il primo contratto discografico, mentre oggi sembra che non ci sia alcun altro scopo nella vita di un artista che firmare un contratto discografico. Allora raccontare la storia di un gruppo di pazzi, sempre con l’idea di essere una spina nel fianco, mai sentendosi a proprio agio in quei salotti che tanti desidererebbero frequentare, in questo momento credo che raccontare questa storia sia molto più formativo che mettermi a fare il disco contro il governo Meloni.

Non si è cambiato il mondo, ma il mondo non vi ha cambiati?

Ah no questo assolutamente no, anzi il mondo ci ha resi ancora più incazzati.

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