Il primo indizio di irregolarità l’ha dato direttamente lui. Calin Georgescu-Roe, candidato alla presidenza della Repubblica rumena inizialmente ammesso al ballottaggio insieme a Elena Varica Vasconi, aveva dichiarato all’Autorità elettorale zero leu (moneta rumena) come budget della sua campagna elettorale. Una dichiarazione «in contraddizione» con le informazioni dell’intelligence; incongruente con «la portata della campagna elettorale»; e contraria alla consapevolezza che una candidatura «comporta spese rilevanti».
La trasparenza del finanziamento – anche per i social («dovrebbero essere tenuti a comunicare i dati sulla comunicazione politica e gli sponsor») – è tra i fattori analizzati dalla Corte costituzionale rumena nelle motivazioni della sentenza con cui ha annullato il procedimento per la nomina del nuovo capo dello Stato. Cinque sole pagine – tradotte in italiano dalla rivista Nomos – che hanno aperto un dibattito internazionale politico e tecnico, echeggiato ieri nel seminario di Quaderni costituzionali de Il Mulino.
«Il procedimento elettorale è stato viziato in tutto il suo svolgimento e in tutte le fasi da molteplici irregolarità e violazioni della legislazione», scrivono i nove giudici spiegando le ragioni di una decisione dirompente, che fa fare i conti con la guerra ibrida della Russia di Vladimir Putin, ma attira sulla stessa Corte le critiche di chi le contesta un assist al primo ministro in carica, il socialdemocratico Ion-Marcel Ciolacu, arrivato terzo nella competizione.
Nelle motivazioni, i giudici ricordano il dovere di controllo costituzionale, la fondamentale tutela sia dei «diritti elettorali dei cittadini sia i fondamenti dell’ordine costituzionale, premesse essenziali per il mantenimento del carattere democratico e dello Stato di diritto». A loro dire, invece, il voto degli elettori è stato «manipolato» e le pari opportunità tra i candidati sono state «distorte», «attraverso l’uso non trasparente delle tecnologie e dell’ intelligenza artificiale, nonché attraverso il finanziamento della campagna elettorale da fonti non dichiarate».
Nello specifico, «uno dei candidati ha beneficiato di una promozione aggressiva, effettuata eludendo la legislazione nazionale e sfruttando in modo abusivo gli algoritmi social». Per i giudici, Calin Georgescu «ha beneficiato di un trattamento preferenziale sui social, con l’effetto di distorcere la volontà degli elettori». Un quadro davanti al quale la Corte ha ritenuto di dover intervenire, invocando la «responsabilità dello Stato di prevenire qualsiasi interferenza ingiustificata» e il «dovere di far fronte ai rischi generati dalle campagne di disinformazione che possono compromettere l’integrità dei processi elettorali».