In attesa di conoscere i «dettagli» dell’accordo sui dazi base al 15% siglato domenica a Turnberry, in Scozia, la premier Giorgia Meloni e i suoi vice, Antonio Tajani e Matteo Salvini, si interrogano anche sui possibili impatti del nuovo quadro dei rapporti commerciali con gli Stati Uniti in termini di consenso e di popolarità. Partiti diversi, elettorati diversi, quelli di Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia. Ma ciascuno nella maggioranza di centrodestra rischia grosso e prepara la sua strategia per resistere ai colpi e non perdere terreno.

Meloni e la difesa del dialogo: pagherà?

Il pericolo boomerang per la presidente del Consiglio è evidente: la sbandierata «very special relationship» con Donald Trump e il ruolo di pontiera e facilitatrice nei rapporti tra le due sponde dell’Atlantico più volte rivendicato da Meloni potrebbe ritorcersi contro di lei se il prezzo da pagare sull’altare del nuovo protezionismo Usa si rivelasse troppo salato per gli italiani. Ciò che le opposizioni chiamano «accondiscendenza» e «resa incondizionata» al trumpismo, però, in casa Meloni è chiamato realismo, se non proprio pragmatismo. La strategia del dialogo caldeggiata contro chi, come la Francia di Emmanuel Macron, aveva chiesto di minacciare contromisure dure, ha partorito il 15% contro il temutissimo 30% che sarebbe scattato dal 1° agosto in assenza di accordo.

Nella nota congiunta con i vice, la premier ha voluto subito chiarire di aver contribuito a sventare una guerra commerciale e a salvare «l’unità dell’Occidente». Su questo tasto continuerà a battere davanti al suo elettorato, fin qui rimasto sensibile al grido «Make the West Great Again» con cui Meloni alla Casa Bianca ha rivisitato il Maga trumpiano e cercato di accreditarsi come il volto “presentabile” e moderato della destra mondiale (quello incoronato nella copertina su Time). Ma domani, se il peso sulle tasche di imprese e cittadini si rivelerà meno sopportabile di quanto assicurato anche in considerazione della coperta cortissima dei nostri conti pubblici, la luna di miele con gli italiani continuerà? Un quesito chiave, alla luce della già annunciata ricandidatura alle prossime politiche.

Tajani e la sfida della colonna europeista del governo

Caratterizzarsi come il pilastro europeista del governo è stata la bandiera identitaria fin qui sventolata da Forza Italia e dal suo leader, Antonio Tajani, il cui compito arduo nel post Berlusconi è stato quello di non disperdere i consensi del fondatore e di proteggere il partito da sbandate sovraniste. L’anima italiana del popolarismo europeo è stata difesa a spada tratta, anche a costo di scontri duri con l’altro vicepremier, il leghista Matteo Salvini.

Ma, proprio per queste ragioni, rischiano di fare più male agli azzurri gli attacchi all’Europa e alla sua debolezza che da più parti stanno piovendo in queste ore dopo l’intesa tra Ursula von der Leyen e Trump. La difficoltà di Tajani è tutta qui: non può permettersi di sparare contro Bruxelles, ma deve preoccuparsi di tutelare la constituency tradizionale del partito. Peraltro in una fase di transizione verso una maggiore democrazia interna, sancita dall’ultimo Consiglio nazionale, e verso l’«apertura» sollecitata da Pier Silvio e Marina Berlusconi. Come sarà accolto dalle imprese in sofferenza per i dazi l’annunciato nuovo Manifesto per la libertà in arrivo dopo l’estate?

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