Nel 2020 un’enorme fuoriuscita di 21mila tonnellate di diesel, causata dal cedimento delle fondamenta dei serbatoi di stoccaggio di Norilsk Nickel dovuto al disgelo del permafrost, ha causato uno dei peggiori disastri ambientali nella storia della Russia, inquinando fiumi e laghi della Siberia settentrionale. Fra i rischi posti alle infrastrutture dalla crisi del clima, il degrado del permafrost è uno dei più gravi e dei più estesi, coinvolgendo vaste aree dell’Asia e dell’America settentrionali, oltre alle infrastrutture d’alta quota su tutte le catene montuose, comprese le Alpi. Un quarto del territorio dell’emisfero settentrionale è costituito da permafrost, gran parte del quale si trova nelle regioni artiche, dove le temperature stanno aumentando a un ritmo tre volte più rapido rispetto alla media globale. Si dà il caso, fra l’altro, che queste zone siano anche fra le più ricche del mondo di idrocarburi e quindi di oleodotti, gasdotti e serbatoi di stoccaggio. Questa combinazione potrebbe rivelarsi un cocktail molto pericoloso.

Danni al 50% delle infrastrutture artiche

I geografi dell’Università di Oulu, in uno studio pubblicato su Nature e condotto in collaborazione con un team di colleghi di università nordamericane e cinesi, stimano che la fusione del permafrost potrebbe danneggiare fino al 50% delle infrastrutture artiche entro il 2050, richiedendo decine di miliardi di dollari in manutenzione e riparazioni. Una stima prudente del costo di manutenzione e riparazione dei circa 12mila edifici, 40mila chilometri di strade e 9.500 chilometri di condotte costruiti sul permafrost in tutto il mondo potrebbe ammontare a 30 miliardi di euro nel 2060. Il documento tiene conto però solo degli effetti del riscaldamento climatico e non ha esaminato le conseguenze del calore creato dalle strutture stesse: se lo avesse fatto, affermano gli autori, la stima sarebbe stata più alta.

Un costo da 20 miliardi di dollari

Il permafrost si trova anche in aree ad alta quota come le Alpi europee e l’altopiano tibetano, quindi non tutti i danni previsti si verificheranno nell’Artico. Tuttavia la fusione del permafrost e i suoi costi peseranno soprattutto sulle infrastrutture artiche e in particolare sulla Russia, che si troverà ad affrontare una bolletta da 20 miliardi di euro. Il problema è che, quando il permafrost si scongela, il terreno si sposta. Ancorare in qualche modo edifici, strade, condotte e altre infrastrutture può ridurre i danni, ma la maggior parte delle strutture al momento non poggia su terreni rocciosi e già oggi nelle città artiche è molto comune trovarsi di fronte a case danneggiate per lo sbilanciamento delle fondamenta costruite sul permafrost. Lo studio finlandese ha scoperto che alcune città in Russia, come Vorkuta, Yakutsk e Norilsk, mostrano danni fino all’80% degli edifici. Per di più, nell’Artico si continua a costruire con gli stessi sistemi. I satelliti mostrano che l’infrastruttura costiera si è ampliata del 15%, coprendo 180 chilometri quadrati in più dal 2000, in particolare nella penisola russa di Yamal.

I rifugi alpini già sotto minaccia

Problemi di stabilità, non solo per le strutture costruite, ma anche per le pareti rocciose, sono stati riscontrati anche nelle nostre Alpi, dove il permafrost è presente oltre i 2.500 metri di quota. Solo per citare qualche caso concreto, la fusione del permafrost ha talmente destabilizzato il rifugio Casati, a 3.269 metri sul Cevedale, che è stato chiuso e verrà rifatto dalle basi. Poco lontano, nell’estate del 2023 il degrado del permafrost ha causato il crollo del bivacco Meneghello, a 3.304 metri. Un anno prima, lo stesso fenomeno aveva spazzato via il bivacco Alberico-Borgna, a 3.674 metri nel massiccio del Monte Bianco. L’elenco degli eventi di questo tipo avvenuti negli ultimi anni è lungo. In Svizzera, si attribuisce alla fusione del permfrost la causa della frana che si staccò nell’agosto del 2017 dalla parete del Pizzo Cengalo, causando la morte di otto persone e spazzando via una parte del villaggio svizzero di Bondo, nella Valle Bregaglia. Oltre tre milioni di metri cubi di materiale roccioso frammisto ad acqua crollarono verso valle, nella più grande frana in Svizzera da oltre un secolo. Stesso discorso per le frane sulle Dolomiti, in particolare sulla Marmolada.

I rimedi per arginare i danni di questo fenomeno sono ancora tutti da studiare. Finora i ricercatori si erano concentrati soprattutto sul monitoraggio delle emissioni di carbonio incorporato per millenni nel permafrost, preoccupati che il rilascio di anidride carbonica e metano dovuto alla fusione potesse spingere il riscaldamento globale oltre il punto di non ritorno. L’impatto sulle infrastrutture era considerato un danno collaterale, ma per le persone che ci vivono sopra, oltre 5 milioni in Siberia, la questione è molto più urgente.

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