Intanto il Cmo Survey Spring 2025 registra come il 6,5% delle aziende preveda titoli “brand-focused” entro i prossimi cinque anni. Un numero timido, ma in crescita. Per Gartner molte realtà sono critiche verso un marketing tattico e insistono sulla necessità di unire posizionamento, scelte tecnologiche e strategia aziendale. «I confini si sono dissolti e ogni touchpoint comunica identità perché il brand oggi non è solo messaggio, ma un ecosistema narrativo che attraversa cultura, tecnologia e strategia. Se il marketing resta confinato alle campagne, perde presa sul racconto complessivo. Per questo le aziende integrano branding e decisioni strategiche, creando ruoli come il Cbo, figure capaci di presidiare il capitale reputazionale e guidare la visione, non solo l’esecuzione tattica», afferma Riccardo Milanesi, docente di transmedia storytelling e Ia all’Università la Sapienza di Roma e alla Scuola Holden di Torino.

Coerenti, non inconsistenti

Tutto passa dalla coerenza narrativa, evitando di snaturare il brand. «Il transmedia funziona con tre regole: coerenza identitaria, specificità del medium e molteplicità dei punti d’ingresso. Ogni piattaforma deve espandere il mondo narrativo del brand offrendo esperienze complementari, non repliche. La chiave è la regia strategica che bilanci libertà espressiva e coerenza complessiva, evitando l’effetto patchwork di messaggi disallineati e inconsistenti. Nell’allargare bisogna prestare attenzione al rischio di frammentazione, all’ipertecnologizzazione e alla perdita di autenticità», dice Milanesi. In fondo l’identità va difesa tanto nei dettagli quanto nelle scelte di fondo. «Non basta esserci ovunque, è necessario curare il significato. La governance narrativa deve saper modulare visione e adattabilità, anticipare i rischi reputazionali e mantenere coerenza in un ambiente sempre più instabile e competitivo. Ogni promessa deve essere mantenuta, altrimenti si genera dissonanza che erode fiducia più velocemente di quanto le campagne possano costruirla», precisa Milanesi.

Capitale reputazionale

Lo ha scritto anche Forbes in America poche settimane fa in un pezzo dal titolo eloquente: il brand è leadership. Perché il marketing allargato richiede fiducia, chiarezza, visione, superando i silos rispetto al passato e lavorando sul capitale reputazionale. «Dopo anni di cannibalizzazione dei brand per macinare numeri a qualunque costo, il marketing sta cercando risposte a domande che il reputation management si pone da decenni: coerenza tra l’identità, ciò che siamo realmente, e immagine, come appariamo all’esterno, uniformità del messaggio sui vari canali, e anche previsione e mitigazione del rischio, sono tutti temi la cui gestione è imprescindibile se si desidera costruire valore per un brand a medio-lungo termine», afferma Luca Poma, professore di reputation management all’Università Lumsa di Roma e autore di “Crush reputation”.

L’ambizione è sempre preservare il capitale reputazionale. «Le aziende esistono per vendere, questo è certo, ma non bisogna fare utili a qualunque costo, se questo significa creare i presupposti per distruggere capitale reputazionale, che è il primo intangibile nel bilancio di un’azienda. D’altronde i brand vivono in ecosistemi complessi e la gestione della reputazione non può fare eccezione», conclude Poma.

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