Lo schema è sempre lo stesso: un membro del governo commette un abuso, i tribunali intervengono per sanzionare la violazione della legge e chi aveva calpestato le regole fa la vittima. Anche questa volta il copione non cambia ed è recitato da Matteo Salvini, ministro delle infrastrutture e dei trasporti del governo Meloni: “Per l’ennesimo venerdì di caos e disagi, i cittadini potranno ringraziare un giudice del Tar del Lazio“. In realtà, dovremmo sì ringraziare il tribunale amministrativo, ma per aver spiegato, con sintesi e chiarezza, in che modo il ministro Salvini abbia abusato del potere di precettazione.

L’ordinanza di precettazione e il decreto del Tar del Lazio

I fatti che hanno portato alla pronuncia del decreto sono piuttosto lineari: un sindacato, l’USB, proclama per il 13 dicembre uno sciopero di ventiquattro ore. Un’azione sindacale simile deve conformarsi alle prescrizioni della legge 146/1990 sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali, sotto il controllo della Commissione di garanzia: così è avvenuto in questo caso, con il rispetto delle procedure e la conformazione alle indicazioni della Commissione. Tuttavia, nonostante la regolarità nella proclamazione e nella procedura seguita dal sindacato, il 10 dicembre, cioè tre giorni prima rispetto alla mobilitazione, il ministro decide di ridurre lo sciopero a quattro ore, con un’ordinanza di precettazione. I rappresentanti dei lavoratori propongono quindi un ricorso cautelare, d’urgenza, che viene accolto dal Tar: l’efficacia dell’ordinanza salviniana è sospesa e lo sciopero si svolgerà secondo la sua modulazione originale.

Le motivazioni che hanno portato il giudice a questa conclusione sono argomentate con semplicità, tanto è palese l’offesa giuridica commessa dal ministro.

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La precettazione infatti è un atto eccezionale che viene adottato o su segnalazione della Commissione di garanzia o, nei casi di necessità e urgenza, direttamente dalla presidente del Consiglio o dal ministro di volta in volta interessato, ma solo qualora ci sia un “pregiudizio grave ed imminente ai diritti della persona costituzionalmente tutelati conseguente all’esercizio dello sciopero”.

Non è questo il caso e il Tar spiega il perché.

Primo. Perché la Commissione di garanzia (“quale Autorità Indipendente di settore” specifica il decreto) non ha inviato alcuna segnalazione o proposta al ministero che suggerisse o giustificasse la precettazione.

Secondo. Perché i disagi sono l’effetto fisiologico dello sciopero e non sono, di per sé, un’offesa ai diritti della persona.

Terzo. Perché la precettazione deve essere giustificata da un pregiudizio grave e imminente ai diritti costituzionalmente garantiti, che non emerge dall’ordinanza di Salvini. Anzi, si giunge al paradosso: il diritto costituzionalmente garantito che rischia di subire un imminente e grave pregiudizio è proprio quello dei lavoratori allo sciopero.

L’importanza dello sciopero (e del conflitto) in democrazia

Lo sciopero, nella nostra repubblica democratica fondata sul lavoro, non è un diritto secondario: è anzi considerato un paradigma costituzionale, perché si riconosce che il conflitto è un elemento ineliminabile nella società, ed è preferibile che emerga, e sia affrontato, piuttosto che restare sottotraccia, cristallizzando i rapporti di dominio e le violenze strutturali.

Come ogni diritto, anche lo sciopero deve essere bilanciato con altri diritti, libertà e posizioni meritevoli di tutela e proprio a questo serve la legge per la regolamentazione dello sciopero nei servizi pubblici essenziali. Questa legge, la 146/1990, come ribadito dal decreto del Tar del Lazio, disciplina anche il potere di precettazione che però serve a tutelare i diritti diversi dallo sciopero qualora vengano calpestati, non a frustrare l’esercizio del diritto di sciopero stesso. Una simile forma di lotta, che richiede un sacrificio ai lavoratori (che rinunciano alla propria retribuzione pur di manifestare), si basa proprio sul causare una qualche forma di disagio: è attraverso la capacità di interrompere il normale corso delle attività produttive che i lavoratori dimostrano la propria forza e aumentano il proprio potere negoziale.

Un anno dopo, Salvini commette gli stessi “errori” in materia di sciopero

Non è la prima volta che Salvini abusa del potere di precettazione. Un anno fa, proprio in questi giorni, dichiarava di voler “salvare il Natale” e, per farlo, impediva ai lavoratori di scioperare. Anche in quel caso le sue ordinanze erano illegittime: su Fanpage l’avevamo spiegato da subito, mentre la giustizia amministrativa è arrivata con i suoi tempi, certificando a marzo 2024 l’abuso del dicembre 2023.

Nel frattempo, però, il danno era fatto: ai lavoratori che intendevano scioperare era stato impedito l’esercizio del loro diritto. Forse anche per questo, un anno dopo, di fronte alla stessa violazione da parte del ministro Salvini, nonostante la giurisprudenza avesse già chiarito ragioni e torti, il sindacato ha preferito ricorrere in via cautelare, cioè chiedere a un giudice di esprimersi con urgenza, in via provvisoria (la trattazione collegiale sarà tra un mese, il 13 gennaio 2025), per impedire un grave e imminente pregiudizio a un diritto costituzionalmente garantito.

Insomma, questo ultimo intervento del tribunale amministrativo si sarebbe potuto evitare se solo Matteo Salvini, in due anni al ministero, avesse imparato funzione e presupposti della precettazione. Il dubbio, di fronte a una tale insistenza nell’errore, è che non si tratti di errore, bensì di una precisa strategia politica e retorica.

Il diritto alla mobilità è messo a rischio dalle inefficienze, non dagli scioperi

Nell’accusare il Tar di “caos e disagi“, Salvini si vanta di aver fatto “tutto il possibile per difendere il diritto alla mobilità degli italiani“. Peccato che questo impegno ministeriale sia concentrato sulla negazione del diritto di sciopero piuttosto che sulla garanzia del diritto alla mobilità.

Guardando un tabellone in stazione o un avviso sulle app ferroviarie, i disagi non sono certo un’esclusiva dei giorni di mobilitazione sindacale: guasti, lavori programmati, ritardi e soppressioni non sono rare eccezioni nella vita di pendolari e viaggiatori.

Nel 2024, oltre allo sciopero programmato per il 13 dicembre, ci sono state altre 29 giornate di sciopero a rilevanza nazionale (cinque scioperi generali, quindici ferroviari, nove del trasporto pubblico locale, come verificabile sul sito del MIT). Se il problema della mobilità fossero gli scioperi, dovremmo pensare che, tolti i trenta giorni di azione sindacale, nel 2024 i servizi di trasporto abbiano funzionato alla perfezione. I dati mostrano però uno scenario diverso: la scorsa estate, ad esempio, in soli dieci giorni, tra il 16 e il 25 luglio, sul sito di RFI (monitorato dal Codacons), sono stati segnalati ben 74 casi di rallentamenti o sospensioni della circolazione, disservizi legati perlopiù a problemi tecnici ai treni o alla linea elettrica. E come dimenticare, poi, l’intero sistema in tilt, all’inizio di ottobre, con l’immediata attribuzione di ogni colpa al chiodo piantato male da un operaio di una ditta esterna?

Se il ministro Salvini fosse realmente preoccupato per il diritto alla mobilità, dovrebbe concentrare i suoi sforzi sul miglioramento della gestione ferroviaria, almeno per gli altri 335 giorni dell’anno, vigilando su tutti quei disservizi che non dipendono dall’esercizio del diritto di sciopero. Questo significherebbe comprendere il proprio ruolo, tutelare i diritti, rispettare il dissenso e assumersi delle responsabilità, tutte prerogative tanto fondamentali per un ministro quanto poco sfruttabili nella retorica vittimista che questa destra ha scelto di adottare.

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Nata nel 1992 in provincia di Milano. Si è laureata in giurisprudenza con una tesi su Danilo Dolci e il diritto al lavoro, grazie alla quale ha vinto il premio Angiolino Acquisti Cultura della Pace e il premio Matteotti. Ora è assegnista di ricerca in diritto del lavoro. È autrice dei libri Potere forte. Attualità della nonviolenza (effequ, 2019) e Argomentare è diabolico. Retorica e fallacie nella comunicazione (effequ, 2022).

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