Il giorno dopo l’accordo al Mimit che ha chiuso la vertenza Beko, per il manager Ragıp Balcıoğlu, non è stato il migliore dei risvegli. Balcıoğlu è il ceo di Beko Europe, quando gli parliamo si trova ancora a Roma per la firma dell’intesa sindacale che è stata molto complicata e da cui dipende il futuro dell’assetto industriale di Beko in Italia. Parlando del nostro Paese ne riconosce la forte cultura industriale, ma anche molte debolezze, dovute in larga parte a quelle della Ue dove «l’industria dovrebbe unirsi per promuovere politiche commerciali e quadri normativi equi». Balcıoğlu non si sbilancia sulle prospettive del nostro Paese perché le incertezze del contesto globale sono troppe. A cominciare dai dazi americani. Se venissero effettivamente introdotti il manager sostiene che «potrebbe esserci un calo significativo della produzione cinese destinata al mercato statunitense. Di conseguenza, gran parte di quella capacità produttiva – non più rivolta agli Stati Uniti – potrebbe essere dirottata verso l’Europa. Se questo scenario dovesse concretizzarsi, si porrebbe una domanda cruciale: come risponderà l’Unione Europea a questa nuova ondata di concorrenza esterna? E quale sarà l’impatto sul mercato dei consumatori? È improbabile che il mercato europeo dei consumi cresca a tal punto da assorbire completamente questa nuova capacità produttiva, e questa incertezza rende molto difficile prevedere come si evolverà il nostro panorama produttivo nei prossimi 4–5 anni».

Lo scorso novembre, la multinazionale degli elettrodomestici che guida Balcıoğlu ha annunciato nel nostro Paese quasi 2mila esuberi e «ci sono voluti oltre 6 mesi per chiudere la vertenza. Non è stato facile, il ministro Urso ha assunto un ruolo molto protettivo verso la produzione e verso i lavoratori, i sindacati si sono rivelati forti. Il contesto industriale in tutta Europa è molto sfidante, ma adesso tutto il negoziato è alle spalle e potremo concentrarci sulle nostre strategie». Rispetto all’annuncio iniziale, alla fine Beko è dovuta tornare sui suoi passi, con un quasi raddoppio degli investimenti e un quasi dimezzamento degli esuberi, se teniamo conto che i lavoratori di Siena andranno ricollocati nel progetto di reindustrializzazione. «Riteniamo di aver trovato un buon equilibrio tra la necessità di trasformare la nostra presenza in Italia e il miglioramento della competitività nel medio periodo – dice Balcıoğlu -. Gli investimenti previsti, pari a 300 milioni di euro, sono un impegno che va ben oltre il piano iniziale».

Per il manager l’Italia va vista all’interno del contesto europeo, «circa l’80-85% di ciò che viene prodotto in Italia è destinato all’export. Di conseguenza, ciò che accade nel resto d’Europa ha un impatto diretto e profondo su quello che facciamo in Italia. Il mercato europeo degli elettrodomestici sta attraversando una trasformazione significativa. I margini sono sotto pressione, il comportamento dei consumatori sta cambiando e la competizione continua ad aumentare». In numeri questo vuol dire che «nel 2024, il mercato complessivo degli elettrodomestici ha registrato una crescita del 2,6% in termini di unità, mentre i marchi dei distributori (trade brands) hanno aumentato la loro quota fino al 15,6%. Questi marchi rappresentano ora oltre il 27% del valore delle vendite nel segmento entry-level, rafforzando il loro impatto sui prezzi e sulle dinamiche di mercato. Nel 2024 i volumi complessivi rimangono inferiori del 5% rispetto ai livelli pre-pandemia, e alla contrazione dei volumi si aggiunge la deflazione dei prezzi». Guardando al futuro, «nei primi due mesi del 2025 stiamo assistendo a un ulteriore guadagno di quote di mercato da parte dei marchi cinesi. Questo cambiamento è stato accelerato da regolamentazioni e incentivi governativi più favorevoli per i produttori asiatici a livello locale, creando un contesto competitivo meno equo».

Pensando all’Italia nel suo complesso Balcıoğlu la considera un Paese interessante (yes and no, dice) nel suo insieme, più per le competenze dei lavoratori che vi si trovano e la capacità di innovare che per il resto, perché «non è competitiva per il costo dell’energia, per le materie prime, per il costo del denaro, per il costo del lavoro. Se guardiamo all’Asia i costi sono molto più bassi e c’è un forte sostegno all’industria. Produrre in Cina è molto più semplice». Il costo, però, è solo uno dei tanti fattori da considerare «nella scelta di una sede produttiva – continua il manager -. Bisogna tenere conto anche delle capacità di ricerca e sviluppo, del know-how ingegneristico, del supporto governativo alla manifattura, delle reti di fornitori e dell’intero ecosistema. Tutti questi elementi contribuiscono a determinare se un Paese è davvero adatto alla produzione. Quindi, da una prospettiva esclusivamente basata sui costi, l’Italia potrebbe non sembrare competitiva. Ma se si considera il pacchetto completo l’Italia può assolutamente rappresentare un’opzione valida. Se invece si confronta l’Italia, e più in generale i Paesi dell’UE, con l’Estremo Oriente, il discorso cambia. Il divario di costi, soprattutto per l’energia, diventa incolmabile e anche scorretto, rendendo estremamente difficile competere ad armi pari».

Beko Europe però punta «a fare dell’Italia un hub strategico chiave per il gruppo, con un focus particolare sugli elettrodomestici da incasso, la cottura e segmenti selezionati, oltre che sul design industriale a livello globale. Questo sarà supportato dalle nostre collaborazioni con i principali produttori globali di cucine, dagli investimenti nei prodotti e nei processi per la cottura e dalla nostra esperienza globale in ricerca e sviluppo».

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