Il blocco alla diffusione di contenuti su YouTube imposto da uno Stato, l’ordine di trasmettere determinati contenuti di una rete televisiva sulla piattaforma e le sanzioni elevate su Google che non esegue le decisioni dell’autorità nazionale che vanno in questa direzione sono una violazione del diritto alla libertà di espressione. È la Corte europea dei diritti dell’uomo a stabilirlo con la sentenza depositata l’8 luglio nel caso Google contro Russia (ricorso n. 37027/22) con la quale Strasburgo ha dato ragione alla società big tech stabilendo altresì che una sanzione economica eccessiva, che non solo impedisce la libertà di espressione ma ha un sicuro chilling effect sulle future attività, è in contrasto con l’articolo 10 della Convenzione dei diritti dell’uomo che tutela non solo il contenuto ma anche la scelta dei metodi utilizzati per la disseminazione di idee e informazioni.

La vicenda

Su YouTube erano stati trasmessi filmati e servizi televisivi di stampo politico e di tutela della comunità Lgbtq e l’autorità delle comunicazioni russe aveva deciso una sanzione elevatissima a causa del no alla rimozione dei contenuti opposta dal colosso digitale. Inoltre, Google International e Google Irlanda avevano deciso di bloccare la diffusione delle trasmissioni di una televisione russa in esecuzione delle sanzioni disposte dall’Unione europea e dagli Stati Uniti nei confronti dell’oligarca russo proprietario del canale televisivo. Erano arrivate multe, anche per questo, pari, nel complesso, a quasi 400 milioni di euro, con confisca di alcuni conti di Google situati in Russia. Bocciati tutti i ricorsi interni, la società Google International e Irlanda si è rivolta alla Corte europea dei diritti dell’uomo che non solo ha dato ragione alla piattaforma ma ha anche fornito importanti principi sulla libertà di espressione sul web.

L’orientamento di Strasburgo

Per Strasburgo, le sanzioni troppo elevate e la minaccia di disporre nuove misure economiche hanno un effetto simile alla censura sui contenuti diffusi su YouTube e costituiscono un’ingerenza sul libero scambio di idee e sulla diffusione di informazioni, impedendo l’esercizio della libertà di espressione. Inoltre, la Corte europea precisa che la diffusione di opinioni politiche e di informazioni indipendenti non costituiscono una minaccia alla sicurezza nazionale, all’integrità territoriale o alla sicurezza pubblica e, quindi, gli ostacoli alla diffusione non sono compatibili con la Convenzione e con le limitazioni a tale libertà ammissibili solo secondo i parametri fissati nell’articolo 10. Esclusa del tutto anche la necessarietà delle misure sanzionatorie in una società democratica che ammette ingerenze solo in presenza di bisogni sociali imperativi.

La Corte, inoltre, tiene a precisare che la diffusione di contenuti che divergono dalla «narrativa ufficiale» imposta dallo Stato, in questo caso anche con riguardo alla guerra in Ucraina, senza dimostrazioni della falsità delle notizie che è a carico delle autorità che stabiliscono limiti alla libertà d’informazione, è insita nella libertà di espressione garantita dalla Convenzione. Non solo. La Corte afferma che nella norma convenzionale è anche incluso il diritto a non essere costretti a esprimersi e, quindi, un’ordinanza di un’autorità nazionale che obbliga Google a ospitare contenuti specifici sulla sua piattaforma è un’ingerenza incompatibile con la Convenzione.

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