La strada verso una moda più circolare è ancora lunga, ma una porzione di aziende (15 su un campione di 28) è già a un punto intermedio o medio alto dell’implementazione del regolamento Ecodesign, i cui obblighi saranno effettivi a partire dal 2026. Rimangono, nella concretizzazione di quanto previsto dalla normativa, una serie di incognite in cima alle quali c’è, senza dubbio, l’ammontare degli investimenti: nessuna delle aziende, nemmeno quelle che, appunto, sono a un livello di implementazione elevato grazie a una serie di progetti pilota, sa stimare quanto dovrà investire, nei prossimi tre anni, per sostenere il costo di questa transizione verso un modello di moda circolare.
Il Monitor su 28 aziende della filiera
Sono queste due delle risultanze della quarta edizione del «Monitor for circular fashion» (M4cf) di Sda Bocconi che verrà presentato lunedì 17 febbraio e monitora, appunto, 28 aziende della filiera fashion – dalle imprese tessili ai fornitori di servizi – con 123mila lavoratori e 34 miliardi di ricavi – e le spinge ad agire sui temi della sostenibilità, misurando le loro azioni in base a una serie di indicatori chiave (Kpi). «L’obiettivo – precisa Francesca Romana Rinaldi, docente di Circular fashion management e direttrice del M4cf presso la Sda Bocconi – è creare un ecosistema di circolarità, portandoci avanti senza aspettare di doverci adeguare alle norme».
La priorità per le aziende – che sono state sondate anche su altri temi: dalla Csddd alla biodiversità – è il regolamento Ecodesign. Essendo la norma ancora in corso di definizione – per aprile è atteso il primo atto delegato che dovrebbe regolamentare nello specifico il settore moda – le imprese stanno sperimentando con materiali non tossici o rinnovabili, dando vita a progetti concreti in una collaborazione di filiera che spaziano dall’Eco-designed jeans (Kering, Candiani, Temera) alla Traceable Fiamma Bag (Ferragamo, Unic, Icec, Temera e Antiba). «La maggior parte delle aziende che fanno parte del Monitor – continua Rinaldi – è impegnata nello sviluppo di progetti pilota, ma c’è una quota più virtuosa che ha già implementato alcuni processi in modo più costante». Nove aziende sono al livello intermedio di implementazione “Applied”, il terzo su cinque; sei aziende sono al 4° livello, mentre nessuna è al 5° e ultimo . «Manca l’ultimo tassello: l’attivazione di questo approccio nello sviluppo di prodotti su scala industriale – dice la docente – ma anche il coinvolgimento dei consumatori». Secondo Rinaldi una spinta arriverà «quando partirà l’Epr», la responsabilità estesa al produttore che in campo tessile è stata introdotta in Italia già dal 1°gennaio 2022, ma non è ancora stata attuata in mancanza di un decreto interministeriale molto atteso. La tecnologia giocherà un ruolo decisivo in questo contesto: quella che registrerà una maggiore crescita in termini di utilizzo (+30,6% nei prossimi tre anni rispetto ai tre precedenti) è l’intelligenza artificiale, seguita, sempre in base al tasso di crescita, dalle piattaforme online per la circolarità (+19,3%) e dalle piattaforme per la tracciabilità (12,6%). Ai piedi del podio, in quarta posizione, il digital product passport (Dpp), innovazione che le imprese dovranno implementare obbligatoriamente entro il 2027, perché prevista proprio dal regolamento Ecodesign.
Il Dpp: secondo Certilogo per uno su due è strumento per rafforzare il legame con i brand
A questo strumento è stato dedicato un ulteriore approfondimento: un sondaggio effettuato da Certilogo (che è una delle 28 aziende del Monitor) su un campione di 1.741 persone. Circa una persona su due (49%), con un picco del 54% tra la Gen Z, ammette la familiarità con questo strumento. L’effetto principale del Dpp – che, da norma, dovrebbe contenere informazioni che garantiscano la tracciabilità del prodotto e indicazioni utili ai consumatori anche per la riparazione – sarà quello di rafforzare il legame tra brand e clienti: secondo il 71% dei rispondenti il dispositivo aumenterà la fiducia e secondo il 49% incrementerà la fedeltà ai marchi. Non mancano, però, i problemi: il prezzo rimane in oltre un caso su tre (37%) un ostacolo all’acquisto di prodotti green; per il 29% il timore di acquistare prodotti contraffatti e il 22% la preoccupazione del greenwashing. «Se il costo di questa trasformazione verrà riversato sul prodotto e quindi sul consumatore si rivelerà uno svantaggio. Servirà un supporto manageriale e tecnico per l’implementazione, oltre ad alcuni incentivi», chiosa Rinaldi.